PICCOLI GRANDI FILM: LOOK BACK

In un periodo in cui non riesco quasi mai a stare molto sveglio la sera, e in cui mi sto rifugiando in animazione seriale che per gran parte è una rivisitazione dei classici della mia infanzia (Dan Da Dan, Ranma 1/2, Dragon Ball Daima, Lupin Zero), ho individuato su Prime Video il film perfetto (dura 53 minuti): Look Back di Oshiyama Kiyotaka, tratto dal manga di Fujimoto Tatsuki, quello di Chainsaw Man. Avendo letto il manga (one shot, un perfetto e dolente graphic novel) mi sono detto vediamo anche l’anime. Non sapendo che è abbastanza diverso dal manga e che è uno dei film di maggior successo in Giappone quest’anno.

Look Back è la storia di due ragazze, Fujino e Kyomoto, che disegnano yonkoma (strisce a fumetti di quattro vignette) per il giornalino della scuola elementare che frequentano. O meglio: Fujino, più ambiziosa e leggermente arrogante, frequenta mentre Kyomoto è una sorta di hikikomori che non esce dalla sua stanza, disegna benissimo ma è anche una fan adorante di Fujino.

La storia si sviluppa in modo molto giapponese (cioè meravigliosamente e misteriosamente ellittico) e vediamo sbocciare una partnership artistica che porta le due ragazze (prima alle medie, poi alle superiori) ad arrivare quasi al traguardo di diventare mangaka affermate. Senonché, ci si mettono di mezzo il destino – sotto forma di un rimando ai tragici eventi della Kyoto Animation del 2019 – e una piccola magia animata che per un po’ ci porta nel territorio del “what if“.

Kiyotaka e lo studio Durian animano il film con uno stile che è molto diverso da quello del manga ma molto efficace nel tratteggiare la psicologia dei personaggi: abbondano i primissimi piani con impercettibili animazioni delle espressioni del viso, le linee tratteggiate, i colori pastello e i giochi di luce (in particolare quello sul finale, carico di speranza e malinconia insieme). Un realismo delle emozioni ottenuto con un disegno particolare e certamente non molto naturalistico.

Piacerà moltissimo ai fan di Makoto Shinkai e di alcuni film Ghibli più “realistici”, anche se il character design si discosta abbastanza da questi modelli. Da vedere per capire come potrebbe evolvere l’animazione giapponese nei prossimi anni.

FLOW È IL FILM CHE NON TI ASPETTI

Flow è il film che non ti aspetti. Soprattutto, non ti aspetti che diventi improvvisamente non solo il miglior film d’animazione dell’anno (superando persino The Wild Robot che per me era già top del decennio) ma probabilmente miglior film dell’anno, punto. Di Flow sapevo zero, se non che era stato presentato a Cannes e aveva fatto un po’ di scalpore ad Annecy.

Boh, pensavo, potrei anche non guardarlo un film lettone con un gattino nero che nuota. Invece meno male che l’ho visto. Flow è un film essenziale e soprattutto universale. Non ci sono parole, quindi non c’è necessità di doppiaggio o sottotitoli. Gli unici suoni che si sentono nel film (a parte una bella colonna sonora pianistica e miyazakiana a cura dello stesso regista) sono i miagolii del gatto protagonista, l’abbaiare del cane, i grugniti del capibara, i versi del lemure e dell’uccello segretario che accompagnano il gatto nel suo viaggio.

Il regista Gints Zilbalodis, non nuovo alle storie senza dialoghi, ha prodotto e realizzato il film in modo particolare: ad esempio non ha utilizzato uno storyboard ma ha creato un ambiente virtuale tridimensionale molto esteso in cui ha piazzato le videocamere virtuali per fare una sorta di “presa diretta” delle animazioni – un po’ come un mondo esplorabile in un videogioco (a me è venuto in mente il vecchio “Myst“). 

La resa è mozzafiato, i movimenti e il comportamento degli animali assolutamente non antropomorfizzati, sono estremamente naturali, e la storia… Dunque, è la storia di un gatto in un mondo dove si percepisce che devono esserci stati degli umani che però non esistono più. In questo mondo a un certo punto arriva un’inondazione più forte di altre e tutto viene sommerso.

Come farà il gatto? Fortunatamente riesce a salire su una barca casualmente “guidata” da un capibara. Poi sulla barca saliranno anche un labrador, un lemure, e un misterioso uccello segretario. All’inizio il gatto è solo nella sua lotta per la vita. Alla fine, con una bella inquadratura che chiude il cerchio… non è più solo.

E il senso è tutto qua. Specie diverse, la cui convivenza in uno spazio ristretto è difficile, che imparano a collaborare per il bene comune. E credetemi, il film è una bomba.

ALIEN: ROMULUS, NIENTE DA DIRE!

Questo me l’ero perso al cinema (peccato) ma ci tenevo a vederlo, anche se tutti dicevano che bah, sì è bellino ma è un mix di citazioni dei vecchi Alien, è più un fan service che un film e via criticando. In realtà, con tutto che qualche difetto qua e là la puoi trovare, Alien: Romulus è comunque uno dei migliori film di Alien visti da anni a questa parte.

Non è che serva poi molto, metti insieme una crew di personaggi tagliati con l’accetta (non mi dite che il primo Alien non era così), punti tutto su degli effetti prostetici degni di nota, tieni duro fino a circa metà film costruendo l’attesa (qui la questione è “gruppo di operai ribelli che se ne vorrebbero andare dal pianeta minerario Romulus e per farlo devono rubare le capsule del criosonno in una nave della Weiland-Yutani”). 

Poi riveli che in quella astronave c’è 1) il corpo semidistrutto di Ash (con le fattezze di Ian Holm) e già questo dovrebbe metterci in allarme e 2) una colonia di facehugger che ovviamente farà il suo. Qui oltre alle varie fasi facehugger / chestburster / xenomorfo abbiamo, alla fine, anche un orribile ibrido xenomorfo/ingegnere (da leggersi con la pronuncia di quel vecchio personaggio di Fabio de Luigi, l’ingegner Cane).

Fede Alvarez, visto anche alla View Conference di quest’anno in una bella masterclass, ci mette del suo per farlo risultare un film compatto, teso e pieno di sangue come deve essere. Succede quello che ti aspetti che succeda e anche qualcosa in più… Non so cosa ci sia da criticare!