STEVEN UNIVERSE FUTURE

Dicembre 2020: da quanto vedo questo post è molto ricercato, sul blog e su Medium, perciò mi sento in dovere di aggiornarlo parlando anche della seconda metà della stagione di Steven Universe Future (al momento ancora inedita in Italia). Scorrendo in giù troverete il solito vecchio post ma con qualche paragrafo in più… 😉

Sembra sempre strano quando lo scrivo, ma quando ci penso bene è effettivamente così. Dal 2016 ad oggi la mia vita (e quella della mia famiglia) ha avuto dei miglioramenti grazie ad una serie animata*.

Mi riferisco ovviamente a Steven Universe (160 episodi per cinque stagioni dal 2013 al 2019, disponibile ancorché poco agevolmente** su Cartoon Network, Boing e da un paio d’anni anche su Netflix), la serie di Rebecca Sugar sul bambino figlio di un umano e di una gemma spaziale che difende il nostro mondo dalle gemme malvagie, scoprendo a poco a poco i suoi super poteri e soprattutto venendo a conoscenza della intricata backstory dei propri genitori e tutori legali.

In pratica vi ho fatto il tipico blurb da Netflix, poi ovviamente la storia è molto più complicata di così e non è mia intenzione farne un’analisi adesso. C’entra il modo con cui cambia lo sguardo verso la figura genitoriale, c’entrano i traumi pregressi e i “carichi” che la storia familiare spesso ti dà, c’entra l’empatia come chiave per risolvere i conflitti, c’entra soprattutto la definizione di un’identità personale svincolata dalle convenzioni sociali e pienamente auto-affermata (il tutto in episodi animati da 10 minuti l’uno, figo, no?)… Vi rimando ad un mio vecchio post per approfondire.

Idee più chiare? Bene. La quinta stagione si è conclusa nella primavera 2019 con un lungo episodio speciale (“Change Your Mind“) trasmesso in Italia solo nell’autunno 2020. Nell’autunno del 2019 è uscito invece Steven Universe The Movie (qui la mia recensione), un vero e proprio musical che potrebbe definirsi come un “victory lap”, un ultimo giro di giostra che riprende in 90 minuti tutti i temi della serie e ne tira le fila. Ma il fandom di SU (di cui peraltro faccio parte a pieno titolo) è affezionato al limite della mania, e lo stesso deve essere per Rebecca Sugar stessa.

Ecco quindi che nel 2020 Steven Universe è tornato con una nuova serie “Future“, che come il film si svolge qualche tempo dopo il finale della quinta stagione. Steven è a pieno titolo un adolescente problematico, che sembra essere in pace con sé stesso, ma evidentemente non lo è. La chiave della nuova serie? Steven ha sempre risolto con la sua intelligenza emotiva i problemi di tutti, ma non ha mai risolto i suoi. E adesso questi problemi (sotto forma di “poteri”) stanno premendo dall’interno per uscire.

Nei dieci episodi che costituiscono la prima parte della miniserie, Steven scopre di avere grossi problemi di gestione della rabbia, per esempio. Una rabbia che si manifesta sotto forma di un aura rosa che aumenta a dismisura i suoi poteri, ma che lo rende decisamente meno umano. Si parte dal desiderio – ancora una volta – di essere d’aiuto per gli altri per arrivare alla realizzazione che l’unica persona che ha bisogno d’aiuto è proprio Steven. Un caso da manuale di PTSD mista ad angoscia esistenziale, paura della solitudine e sindrome del Caregiver. Nel corso degli episodi scopriamo che Rose, la madre di Steven, ha commesso molte più “malefatte” di quelle che già erano note in passato. Il carico di sensi di colpa che Steven si porta dietro per colpa della madre è un tema centrale in tutta la serie, ma qui si ripresenta con maggiore potenza: Steven è destinato a ripercorrere lo stesso percorso di Rose?

La maestria dello storytelling di Rebecca Sugar ha fatto sì che negli anni gli spettatori scoprissero insieme con i protagonisti della serie che il personaggio di Rose, inizialmente idealizzato nella sua assoluta e non scalfibile “bontà”, è in realtà uno dei più complessi, ambigui e “fallati” del mondo di Steven Universe. Un character arc “a ritroso” che in molti casi ha confuso gli spettatori che oggi disprezzano il personaggio come se fosse il villain dello show. Ovviamente non è così. Al di là dei molti antagonisti “esterni”, che bene o male fanno la parte di cattivi “da operetta” o si convertono a rimanere al fianco di Steven, il vero male da combattere in Steven Universe è la refrattarietà ad accogliere dentro di sé anche le emozioni negative e a viverle pienamente come è giusto che sia.

In generale, la scelta di proseguire con una “nuova” serie è stata indicativa di quanto la Sugar sia disposta ad esplorare quello che succede a un eroe dopo che il suo viaggio è finito. Cosa resta dell’avventura? Come può sopravvivere Steven – il salvatore del mondo – quando nessuno ha più veramente bisogno di lui? SUF rischia in alcuni episodi di rasentare il filler (termine vagamente dispregiativo usato per indicare episodi che non portano avanti significativamente la trama orizzontale), ma in altri – come “Volleyball”, “Little Graduation” o “Prickly Pear” – vola altissimo. Steven deve accettare di non essere più necessario, deve lasciar andare i suoi vecchi amici e deve, come si suol dire, voltare pagina. Crescere vuol dire riconoscere i propri bisogni e saperli comunicare. Ma Steven è stato troppo occupato a diventare un eroe e salvare il mondo. Deve ancora imparare a salvare sé stesso.

La seconda metà di Steven Universe Future (gli ultimi 10 episodi, trasmessi a marzo in USA e ancora inediti in Italia) rappresenta il vero e proprio epilogo della saga di Steven. Cento minuti sembrano pochi per imparare a gestire la ridda di emozioni che si agitano nel cuore di Steven, ma Rebecca Sugar e il suo team riescono a chiudere (quasi) tutte le storie rimaste in sospeso. Da qui in poi SPOILER grossi come una casa, quindi continuate a leggere a vostro rischio e pericolo.

Dopo un paio di episodi interlocutori che servono da un lato a completare il quadro dell’estraniamento di Steven da tutto il suo mondo, dall’altro a tratteggiare l’evoluzione di un personaggio come quello di Perla (in “Bismuth Casual”), si arriva al dunque. Negli episodi successivi, in un crescendo altalenante di emozioni, Steven in un certo senso perde gli ultimi due agganci con la realtà e con la sua “umanità” (Connie e Greg) e avvia la sua trasformazione metaforica – ma anche letterale – in “mostro”. Nell’episodio “Growing Pains” vediamo come la crisi psicologica di Steven si rifletta in rigonfiamenti rosa che lo rendono sempre più simile a Rose Quartz / Pink Diamond, la problematica madre aliena e come in modo molto acuto gli venga diagnosticata una sindrome da disturbo post-traumatico. In tutti gli episodi dalla prima alla quinta stagione abbiamo visto Steven combattere con arguzia e leggerezza. Ora capiamo che tutti quegli scontri hanno lasciato un segno, fisico e psichico.

Il punto di non ritorno arriva quando Steven attua l’irreparabile (beh, non proprio così irreparabile, ma qualcosa che lascia un segno indelebile): da quel momento perde la sua umanità e si trasforma… in un enorme kaiju rosa! È buffo da dire, perché sulla carta è una trovata quasi surreale, ma considerando il debito che Steven Universe ha con molti anime tradizionali e l’amore che Rebecca Sugar ha per quel tipo di animazione, ci sta tutto. E la cosa viene trattata molto seriamente dai suoi amici e familiari. Come sempre, il potere dell’amore vincerà su tutto in un episodio finale all’insegna del ritrovato amore di sé, l’unico “potere” che a Steven ancora mancava. È il tema, lo capiamo solo alla fine, della sigla finale della serie – non a caso, “Being human”.

Tutto sommato, anche se del mondo di Steven vorremmo vedere ancora ore e ore di trasmissione, Future ha una chiusura soddisfacente, che non lascia delusi. Ovviamente, si piange moltissimo. Altrettanto ovviamente, non resta che consolarsi con gli art book e il cofanetto celebrativo (ahimè solo USA).

* Acuto com’è nell’analizzare i temi della depressione e dei problemi psicologici dei personaggi (è praticamente un Bojack Horseman per bambini), Steven Universe mi ha inaspettatamente aiutato in momenti molto bui della mia vita, e sono convinto che averlo riguardato con la Creatura abbia contribuito a farlo crescere meno manesco e con il valore dell’empatia e del riconoscimento delle diversità.

** Non so su Cartoon Network Italia, ma su Boing hanno lo stramaledetto vizio di trasmettere blocchi di episodi “a cazzo”, il che è la morte per una serie come Steven Universe che basa il 90% del suo appeal sulla continuity molto forte tra i vari episodi e le varie stagioni.  Su Netflix invece hanno deciso di pubblicare la prima stagione e poi la quarta, senza la seconda e la terza. Insomma, un casino. Su Kimcartoon lo trovate tutto (in inglese). Se cercate il gruppo Steven Universe Italia su Facebook e chiedete lì, qualche dritta ve la danno di certo. Non c’è gioia più grande per un fan di SU di coinvolgere nuovi spettatori ignari…

LO SPETTRO DELLA DIVERSITÀ

Di seguito c’è una serie di pensieri a volte confusi che devo buttare giù per fermarli, vedere se riesco a dargli un filo logico. Per esprimere quello che voglio dire sarò costretto a ricorrere anche a parolacce, insulti e termini poco politicamente corretti. Serve all’esposizione, sapete.

Spesso mio figlio mi chiede perché non ci si ama tutti al mondo. Una di quelle belle domande da bambino, che ti mettono in crisi. Già. Perché? Fino a qualche tempo fa, cinico e misantropo quale sono, ho sempre ritenuto che la condizione di natura fosse quella hobbesiana di homo homini lupus, cane mangia cane, mors tua vita mea. E che solo dopo un estenuante percorso di educazione, studio e repressione dei naturali istinti omicidi le persone potessero (se lo volevano) diventare “buone”, amorevoli, empatiche, rispettose. Ritenevo anche che il percorso di automiglioramento fosse una goccia nell’oceano di guerra, violenza e sopraffazione che è la razza umana. Ma una goccia che serviva.

Oggi, quando mi trovo a spiegare a mio figlio che ci sono persone cattive, che opprimono altre persone in vari modi e con varia intensità, non sono più così sicuro delle mie precedenti convinzioni. Prima pensavo che i bambini nascessero “cattivi”, cioè capaci di tutto per autoaffermare il proprio totale egoismo a scapito dell’altro, e che il percorso di educazione fosse un lungo viaggio verso la “raffinatezza” dell’uomo, sgrossando le parti “bestiali”. Non penso più in questo modo. Nell’ultimo anno in particolare, dentro di me c’è stata come una rivoluzione copernicana.

Oggi sono convinto che i bambini nascano “buoni”, ossia con una infinita capacità di dare e ricevere amore (certo, sono bambini, il loro egoismo è innegabile ma non c’è cattiveria gratuita), e che il loro percorso di educazione sia nel migliore dei casi un processo maieutico per “tirar fuori” in modo sempre più esplicito le buone qualità che già hanno innate. Nel peggiore (e purtroppo più comune) dei casi, una consapevole e sistematica “tarpatura” di queste buone qualità che trasformano il bambino in un uomo impaurito, arrabbiato, non in contatto con le sue emozioni, poco empatico, egoista e determinato a prevaricare i suoi simili.

Questa cosa la percepisco anche quando mi vengono raccontati piccoli episodi scolastici di bullismo (ad esempio, se chiamano mio figlio “ciccione”). Un commento estremamente comune ad una situazione del genere – un commento che io per primo avrei fatto fino a qualche tempo fa – è: “Ma certo, i bambini sono dei bastardi, la loro cattiveria è innata per cui tendono a comportarsi male tra loro”. Il commento che oggi farei è piuttosto: che esempio hanno dato i genitori ai loro figli che usano termini come “ciccione” in prima elementare? O “frocio”, “puttana”, “handicappato”, “negro”, “ebreo”, “pezzente”, “cessa”, e via dicendo dalla seconda elementare in su?

È questo il punto su cui dovremmo soffermarci, un problema che i bambini non percepiscono, perché per loro il mondo è COME DOVREBBE ESSERE. La diversità è l’assoluta normalità. Non c’è nessun problema se io sono ricco e tu povero, se a me piacciono le persone del mio stesso sesso e a te no, se io sono bello o brutto, magro o grasso, se ho un colore della pelle diverso o pratico una religione sconosciuta. Ma noi questo problema ce lo abbiamo ben stampato in testa. E in alcuni casi ci facciamo un punto d’onore di passare questa visione del mondo ai nostri figli, perché è comodo perpetuare la dominazione di un gruppo su un altro. Posso essere l’uomo più sfigato del mondo (e credetemi, nella maggior parte dei casi queste persone sono solo degli sfigati), ma troverò sempre qualcuno da opprimere.

Il gruppo dominante è chiaro da secoli: maschi bianchi etero di mezza età, in salute, più o meno ricchi, di bell’aspetto, possibilmente cristiani. Non c’è altro modo che partire da qui, da noi (a parte la riccanza, sto in pieno nel gruppo pure io). Gli altri gruppi, i gruppi in qualche modo oppressi, stanno già lavorando per cambiare le cose, per mettere sotto gli occhi di tutti le storture del sistema. Ma siamo noi a doverci sforzare di più per dare l’esempio.

A dover spiegare perché le donne guadagnano di meno a parità di lavoro. Che non esistono lavori o giochi “da femmine” e lavori o giochi “da maschi”. A rendere conto del perché molte donne vengono uccise da uomini che proclamano di amarle. A dover spiegare perché ci sono persone che provano paura e rabbia nei confronti di persone dal colore della pelle diverso. E le guerre, le torture e i genocidi che questa visione si porta dietro. A dover spiegare che è normale che si possano amare uomini, donne, persone transgender e che i matrimoni tra persone dello stesso sesso non sono una cosa eccezionale (per i nostri figli non lo sono, ma per i loro genitori a volte sì). Che fare la guerra a chi è più povero di noi non ci rende più ricchi. Che gli anziani, i malati o i disabili vanno aiutati e supportati e non ignorati o peggio picchiati, torturati o uccisi.

Per questo io provo una rabbia sorda anche solo a sentire un body shaming potenzialmente innocuo come “ciccione” (non è innocuo, ma facciamo finta che sia così, e comunque a quanto pare mio figlio non l’ha sentito).  L’ignoranza sempre più diffusa è la piaga da contrastare, e questo non è un cazzo facile. Quando ero piccolo io, quaranta anni fa, era normale chiamare “mongoloide” un compagno, o insultare le persone in base al loro (presunto) orientamento sessuale o dire di una ragazza che era una “zoccola” perché scopriva troppi centimetri di pelle.

Oggi se scoprissi che mio figlio usa certe parole gli farei la lectio magistralis (che poi è una cosa che ho imparato anche io negli anni): STRONZA sì, PUTTANA mai. PEZZO DI MERDA sì, FROCIO mai. Se vuoi insultare una persona perché ti ha causato un forte disagio devi riferirti al comportamento, non alla persona. E se invece vuoi insultare una persona per il puro gusto di farla stare male perché ha qualcosa di “diverso” da te, la vera merda sei tu. Con buona pace della cacca, che viene sempre tirata in ballo quando c’è da insultare qualcuno.

Il mondo di oggi è sempre più complesso, stratificato e fluido di quello di 50 anni fa, e se non lo vogliamo capire noi ci sarà sempre un pericoloso scollamento tra la realtà dei nostri figli e quella nella nostra testa. Abbiamo sempre più bisogno di spettri e sempre meno di binarismi per spiegarlo. I binarismi, peraltro, erano già inadatti a spiegare il mondo mezzo secolo fa e chiunque abbia superato con un certo successo l’adolescenza dovrebbe sapere che non esistono solo il bianco e il nero ma anche le famose sfumature di grigio.

Quando ero piccolo io, le mie brave discriminazioni le ho subite. Perché non ero conforme al canone di peso, bellezza o genere. Perché ero un bambino che giocava con le bambole, perché vestivo strano, perché ero un adolescente che si truccava, perché “andavo in giro mascherato” anche se non era carnevale. Perché non giocavo a calcio ma stavo con le femmine, o comunque in generale facevo cose considerate “da maschio” e cose considerate “da femmina” in ugual misura. Mi hanno sempre definito strano e mi sono sempre sentito strano, inadeguato a quello che probabilmente ci si aspettava da me.

Ho dovuto raggiungere l’anzyanità e studiare un po’ meglio le questioni riguardanti l’identità di genere per capire che anche questa mia caratteristica è semplicemente parte di uno dei tanti “spettri” che definiscono in maniera meravigliosa e sempre diversa ogni essere umano. Che puoi essere maschio ed etero ma non posizionarti – nella definizione di te che è nella tua testa – in una casella specifica uomo/donna e accogliere in egual misura caratteristiche dell’uno e dell’altro polo. Che anche l’identità di genere, come tutte le cose della vita, è una questione non binaria. Ma non lo dico per incasellarmi in una definizione, non è quello il punto, non ne ho bisogno e grazie al cielo sono sempre stato a posto con me stesso e me ne sono sempre fregato del giudizio altrui. Ma solo perché ho avuto una famiglia e dei buoni amici che mi hanno passato questa capacità.

E come quello del genere c’è lo spettro della neurodiversità, un altro concetto tutto interiore che difficilmente viene compreso perché non è immediatamente visibile come le sfumature di colore della pelle di una persona. Eppure dobbiamo saper distinguere un introverso da una persona che veleggia più verso l’autismo funzionale, e sono capacità che vanno raffinate col tempo e non vanno assolutamente trascurate, per poter vivere un mondo di relazioni sane e consapevoli. [Mentre scrivevo mi sono preso una pausa per fare il test sul Quoziente dello Spettro Autistico e ho totalizzato 25 su 50: da 25 in su sono le persone che cominciano ad avere dei tratti autistici, che bello].

In definitiva, non ricordo nemmeno più cosa volevo dire con questo lungo post. Sicuramente dovevo vomitare una palla di pelo, di certo era una cosa legata al ruolo di padre di figlio maschio nel ventunesimo secolo. Un filo logico forse non c’è, ma quello che so è che bisogna seminare amore.

Intolleranza e discriminazione?
Rispondiamo baciandoci in bocca.
E magari anche con un “Me ne frego” 😀

 

HITLER, IL KAISER, I CONIGLI E LE MUCCHE

Gennaio è stato un mese in cui ho visto pochi film, più che altro perché mi si sono moltiplicati i lavori sotto il culo e di conseguenza non ho avuto più tempo né di leggere né di vedere cose. Mi sono limitato ai due film “evento” di inizio anno, già in forte odore di Oscar ed entrambi centrati su storie di guerra, che è un genere che a casa mia si pratica poco, perché ho sempre preferito fare l’amore (o mettere dei fiori nei miei cannoni, insomma, avete capito ve’).
Daje, allora.

JOJO RABBIT (Taika Waititi, 2019)
Dannato Taika Waititi, tu mi vuoi morto. Ho visto praticamente tutti i tuoi film, mi fido che sei un ottimo regista di bambini (Boy e Hunt for the Wilderpeople lo confermano), so che se vuoi mi fai ammazzare dalle risate (What We Do in the Shadows, Flight of the Conchords e sì, anche Thor Ragnarok sono lì a dimostrarlo). Come giustamente dice l’Adolf Hitler del tuo film, “falli sentire a proprio agio e poi quando meno se lo aspettano accoltellali al cuore”. Ecco, appunto. Jojo Rabbit parte con un montaggio di immagini da Triumph des Willens accompagnate da I Want to Hold Your Hand dei Beatles (ma ovviamente nella versione tedesca). E già lì ti senti male, perché ti scatta il piedino ritmico e intanto ti viene la nausea. Devo dirlo, a me piacciono i film che stanno sempre sul filo della rovina più totale. Jojo Rabbit è uno di questi. In tutte le scene da sghignazzo stai a disagio perché c’è sempre sotto qualcosa di malato, ma tutto sta in un equilibrio perfetto. È una miscela esplosiva di orrore, violenza, comicità sgangherata, tenerezza, piccoli movimenti del cuore. Non è un cazzo facile tenere insieme tutto questo. Non è un cazzo facile farmi sbottare di risate e qualche minuto dopo farmi piangere in silenzio (due volte, e non mi capitava da diversi anni al cinema, anche se sono superemotivo). E infatti se devo dirla tutta, in alcuni momenti c’è una spinta sull’acceleratore del volemose bene che deve funzionare da collante per tenere tutto insieme. Ma Jojo Rabbit è uno di quei film cui perdoni anche qualche piccolo difetto. Production design e costumi degni di un Wes Anderson in fase paranoia perfezionistica, intere scene che buttano un occhio a Chaplin e uno a Mel Brooks (occhio al momento topico dei multipli Heil Hitler), un protagonista che a dieci anni sa trasmettere con uno sguardo e un’inclinazione della testa diecimila emozioni, un cast di supporto perfetto (criticano la mia amata Scarlett, ma io l’ho trovata molto in botta). Tutto per dimostrare la tesi dei versi di Rilke alla fine del film: “Let everything happen to you / Beauty and terror / Just keep going / No feeling is final”. E a proposito di finale, dannato Taika Waititi, il colpo al cuore di Bowie… maledetto ruffiano. #recensioniflash

1917 (Sam Mendes, 2019)
1917: cosa ne devo pensare? Non è un film de panza, questo va detto subito. Non è nemmeno tanto un film di menare o comunque di sparare. È un film di immagini e di movimento, di quadri e di profondità, di ambienti e di pedinamenti. Seguiamo i due sfigatissimi protagonisti (uno era il povero Tommen di Game of Thrones, l’altro appariva in 11.22.63) in una missione suicida: portare un importante messaggio oltre le linee nemiche. Ma la storia – il “cosa” – non importa, è solo un pretesto. Facile dire che tutto il film è un sontuoso videogame. Nel piano sequenza virtualmente ininterrotto di 1917 c’è l’assegnazione della missione, il percorso a ostacoli, ogni tanto un break come nelle scene di interludio tra un livello e l’altro di un FPS. In ogni break c’è una star di livello che fa un discorsetto, tipo Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch o Andrew Scott (sua l’interpretazione più coinvolgente). Si resta conquistati dal production design (cadaveri che affiorano ovunque, cavalli morti, mucche vive, filo spinato, arti amputati, mosche, sangue, fumo, fiamme, cenere, fango e merda) e ovviamente dalla Tecnica con la T majuscola che francamente distrae un po’ dall’immersione totale che forse Mendes cercava di offrirci. Ci sono scene memorabili, come quella del dormitorio tedesco sotterraneo (che è una trappola), del fienile diroccato (che pure è una trappola), dell’edificio sulla riva del fiume (trappolissima), della città distrutta sotto le luci livide dei bombardamenti (trappolandia). Intendiamoci, 1917 ha i suoi bei momenti di tensione e più di un jump scare, ma tutto è sempre ricondotto a un formalismo che lascia un po’ interdetti. Risulta chiaro (anche dalla scelta di due protagonisti semi sconosciuti) che il punto è spogliare di ogni eroismo lo schifo della guerra e mostrare più che altro la paura, la fuga, l’ansia e la depressione. Peccato che anche questa tesi venga contraddetta da una delle sequenze finali (che io tra me e me ho battezzato “la sequenza Chariots of Fire”) che è francamente imbarazzante, come imbarazzanti sono certi dialoghi (almeno in italiano, purtroppo stasera il cinema non proiettava in VO). Quindi in definitiva, mi è piaciuto? Sì, mi è piaciuto di testa, l’ho apprezzato come si apprezza un’opera d’arte classica, una dimostrazione di virtuosismo narrativo. Ma non mi ha coinvolto. Virtuosismo per virtuosismo, ridatemi They Shall Not Grow Old di Peter Jackson. #recensioniflash