LA PANDEMIA E LE #RECENSIONIFLASH

Sorbole, sapete cosa ha combinato questo nuovo Coronavirus che non avevo messo in conto? Mi ha fatto dimenticare tre mesi di #recensioniflash! Beh, certo, mi ha anche fatto prendere il coraggio di mostrare il mio faccione su Facebook Live (e a seguire su YouTube) per parlarvi del grande e onusto cinema “di una volta”, ma le mie incursioni nel noir, nel mélo e nel musical hollywoodiano tra gli anni ’30 e gli anni ’60 non possono sostituire l’arguzia delle recensioni sui film, filmoni e filmacci del momento. Poi mi ha contattato anche Gabriele Niola che all’inizio pensavo “ma figurati sarà uno scherzo” e invece cercava seriamente le #recensioniflash, e allora eccole, le #recensioniflash, perdio, pandemia edition!

THE COLOR OUT OF SPACE (Richard Stanley, 2019)
The Color Out of Space, il film sponsorizzato da Pantone. Ha ha. No, a parte gli scherzi. C’è HP Lovecraft e c’è Richard Stanley, il regista misterioso che non fa film dal 1990, anno in cui è uscito Hardware che è un culto assoluto che non si può non aver visto, solo che dopo aver fatto Hardware impazzisce, va nel deserto della Namibia, gira un videoclippone per i Marillion e poi si dà al documentario. Fino ad oggi. E potete immaginare quante idee filmiche ha in serbo per noi. Lovecraft, si sa, è abbastanza infilmabile. Il colore venuto dallo spazio, poi, è uno dei racconti più ostici. Ma questo film ha un asset fortissimo. Nicholas Cage che sbrocca. Tutti vogliamo vedere Nicholas Cage che sbrocca, non ne abbiamo mai abbastanza. L’altro asset sono gli alpaca. Che ben presto diventano orribili alpaca mutanti. Vabbè, comunque: Nicholas Cage che munge gli alpaca, Nicholas Cage che sbrocca in macchina, Nicholas Cage che va fuori di testa con la doppietta in mano, e sangue, tantissimo sangue. Il colore venuto dallo spazio, siccome non si poteva non farlo vedere, è un tono di fucsia molto fluo e molto appiccicoso, che contamina acqua, vegetazione, animali e alla fine anche la povera famiglia di Nicholas Cage, che si ritrova circondato da un tripudio di body horror che prende il meglio dalla grande tradizione di John Carpenter, Stuart Gordon e Brian Yuzna, aggiungendo al tutto un bel tono di rosa shocking. Psichedelia a pacchi (non tanta quanto in Mandy, ma insomma, siamo lì), effetti visivi al limite dell’epilessia (dello spettatore, intendo), gente che muore malissimo, e verso la fine il momento puramente lovecraftiano delle geometrie impossibili e delle visioni di mondi alieni che in fondo in fondo tutti si aspettano. Se ascoltate me, sono due ore spese bene, anche perché spiegatemi chi non vorrebbe vedere un film con Nicholas Cage e un gruppo di alpaca. Nessuno, infatti. #recensioniflash

GUNS AKIMBO (Jason Lei Howden, 2019)
Sento come il dovere morale di parlarvi di Guns Akimbo, uno di quei film che metà dei miei contatti liquiderà con un “ma come cazzo fai a vedere certe cose” e l’altra metà celebrerà con un “fuck yeah, pistoloni, sangue a litri e musica techno a palla”. Io mi pongo nel mezzo, essendo un raffinato intellettuale della settima arte con un penchant mai troppo nascosto per i film di menare. Inizierò col dirvi di Daniel Radcliffe (in foto), attore che tanto disprezzavo ai tempi di Harry Potter quanto ho amato alla follia dopo. Lui ha talento nello scegliere i ruoli più assurdi (un po’ come Elijah Wood post-Frodo): lo abbiamo amato nel ruolo del cadavere scoreggiante in Swiss Army Man e lo adoriamo ancora di più in questo piccolo grande b-movie neozelandese in cui interpreta Miles, un nerd vegano e nonviolento che viene coinvolto suo malgrado in un gioco mortale in cui ci si deve ammazzare a vicenda per il plauso del popolo bue che fa le scommesse on line. Siccome lui fa il cacciatore di troll sui social, in pratica i troll gli arrivano in casa e gli imbullonano dei pistoloni alle mani, da cui le continue gag sul fatto che non riesce a mangiare, pisciare, spippolare il cellulare (le tre cose fondamentali della vita di un uomo nel 2020, diciamolo). L’altro grande asset del film è Samara Weaving nel ruolo della pazza schizzata che spacca i culi (ruolo in cui è assolutamente perfetta): la apprezziamo già dalla sequenza pre-titoli in cui fa un bodycount esagerato mentre spara lama schiaccia e arrota gente sulle note di You Spin Me Round dei Dead or Alive (primi 4 minuti che sono già un selling point definitivo per il film, poi dopo entra in scena Radcliffe). Vabbè, che altro dire: cattivissimo tatuatissimo e sopra le righe, umorismo alla action movie anni ’80, violenza grafica portata all’estremo, blanda critica al mondo dell’online gaming, cinepresa che fa del roteare continuamente la sua cifra stilistica principale (è come vedere un film chiusi dentro una di quelle palle trasparenti che rotolano con te fissato dentro), colonna sonora che punteggia il tappeto sonoro electro con hit anni ’80 tra le più appiccicose del decennio. In una parola, meraviglioso. #recensioniflash

EL HOYO (Galder Gatzelu-Urrutia, 2019)
Volevo un attimo tornare al format delle #recensioniflash per parlarvi dei film più adatto a questo periodi di clausura forzata che ho visto su Netflix (peraltro volevo già vederlo al TFF lo scorso novembre ma me lo ero perso). Il buco, del regista credo basco Galder Gatzelu Urrutia, è uno di quegli oggetti filmici strani, che mescolano horror e fantascienza distopica in un metaforone di grana grossa sulle storture del capitalismo. C’è questo carcere verticale, immaginatevi un pozzo senza fondo, costruito a livelli. Al livello zero (piano terra) c’è uno chef che prepara ogni sorta di prelibatezza e la apparecchia su una piattaforma tipo ascensore che poi va giù per centinaia di livelli sotterranei. I carcerati (due per livello) che stanno ai livelli più alti si strafocano di roba e lasciano ai carcerati dei livelli più bassi miseri avanzi, casomai sputati o rigurgitati. Ovviamente ai livelli sotto il cinquantesimo non arriva più nulla per cui quei detenuti si danno allegramente al cannibalismo e ad ogni sorta di efferatezza. Di più: ogni mese i detenuti cambiano di livello, magari un mese sono al livello 7 e il mese dopo al 230, subendo trattamenti diversissimi a seconda della “classe” in cui si ritrovano. In tutto questo contesto delirante, Goreng, l’eroe del film che si porta dietro una copia di Don Quixote (wink wink), tenta di sovvertire il sistema. Non ho detto che ogni detenuto si può portare nel Buco solo un oggetto. Goreng ha il suo libro. Il suo compagno di cella ha un coltellaccio tipo Miracle Blade. E quando l’uomo col libro incontra l’uomo col coltello, immaginatevi come può andare a finire. Disgustoso, visionario, sopra le righe come quasi tutti gli horror spagnoli, Il Buco ha il “vizio” di essere allegorico in modo forse un po’ troppo didascalico. Magari non è per tutti i gusti. Però intrattiene.

POM POKO (Isao Takahata, 1994)
Nella quarantena esistenziale di questi giorni, occorre scegliere accuratamente film che possano andar bene per tutta la famiglia. Quindi, siccome con lo Studio Ghibli si va sempre sul sicuro e siccome ho qualche piccola lacuna (prevalentemente a proposito di Takahata, ché di Miyazaki ho visto tutto), decido di vedere per la prima volta Pom Poko. Con la Creatura. Ora, a parte che questo potrebbe essere l’unico film Ghibli dove l’adattamento di Cannarsi ci sta tutto (i procioni del film e in particolare il procione narratore usano un registro “burocratese/sindacalistico” per dare un effetto comico che comunque i bambini non capiscono), ci sono alcune cose fantastiche. La prima è che tutti i procioni del film hanno i testicoli ben in evidenza in ogni inquadratura (favorisco foto). La seconda è che i procioni del film usano i suddetti testicoli come armi, gonfiandoli e teabaggando gli operai dei cantieri edili e gli sbirri (Pom Poko è un film ferocemente ambientalista e anti speculazione edilizia in cui si professa lo sterminio degli umani e delle loro ruspe). La terza è che per concentrarsi sulla lotta armata ai procioni del film viene intimata la castità e la non procreazione, ma verso la metà del film i testicoli del procione protagonista vengono messi a dura prova da una procace prociona, sicché i due si rotolano nell’erba gemendo e nella scena dopo hanno quattro cuccioli (la legittima domanda della Creatura “come hanno fatto a fare quattro cuccioli?” era inevitabile). Poi vale tutto per una scena di 10-15 minuti che è un tripudio di yokai grotteschi e bellissimi, che ho dovuto mandare indietro cinque volte per soddisfare la brama della Creatura. Per la cronaca, ci sono anche diversi procioni morti spiaccicati da ruote di camion e alcuni altri morti sparati dagli sbirri. Un grande classico per famiglie, insomma. Ora possiamo passare a Una tomba per le lucciole. #recensioniflash

KNIVES OUT (Rian Johnson, 2019)
File under category “i bei film di una volta”. Knives Out è essenzialmente un film di Poirot preso di peso e trasportato nella contemporaneità. Un oggetto abbastanza alieno nel cinema del nuovo millennio: non è un remake un reboot un prequel un sequel una retcon un franchise. Ma soprattutto: è un film americano dal vago sapore europeo, un po’ rétro. C’è il superdetective messo lì quasi per caso, c’è il poliziotto “spalla”, c’è il morto e tutta la famiglia di sospettati. Unica variante, a metà si scopre l’assassino e il resto del film diventa meno whodunit e più suspence. La commedia (anche un po’ sopra le righe) è sempre dietro l’angolo, ci sono Jamie Lee Curtis, Toni Collette, Don Johnson, Chris Evans, Michael Shannon. Ognuno ovviamente ha qualcosa da nascondere. Prevedibile ma simpatico, un po’ come una lunga partita a Cluedo, il film è di Rian Johnson. Del quale io fondamentalmente mi chiedo: ma come gli è potuto anche solo venire in mente di affidargli uno Star Wars? Intendiamoci, dell’ultima trilogia Gli ultimi Jedi è il mio preferito, ma… alla Disney devono essere un po’ pazzi. Vabbè, comunque tornando a Knives Out chiuderei così: è uno dei rarissimi film uscito dopo il 2000 che potrebbe piacere a mia madre. #recensioniflash

BOOKSMART (Olivia Wilde, 2019)
Proprio oggi la mia amica Gaia è uscita con un pezzo su Cosmo riguardo ai migliori film di registe usciti negli ultimi anni. Proprio in questi giorni volevo vedere Booksmart e insomma ho fatto due più due e vi posso dire che l’esordio dietro la macchina da presa di Olivia Wilde è decisamente esilarante. OK, è la solita commedia ambientata nel graduation day della solita high school nella solita L.A., ma prima cosa c’è Beanie Feldstein che si mangia ogni scena (è la sorella di Jonah Hill, e ha la sua stessa forza, quindi è praticamente inevitabile); seconda cosa c’è un umorismo al femminile che mi ha ricordato parecchio Bridesmaids nonostante quello fosse un film diretto da un uomo (ma che uomo, Paul Feig). Le “booksmart”, le secchione, sono le due ragazze nerd che non hanno mai fatto festa perché troppo impegnate ad assicurarsi il college “giusto”, ma la sera prima del diploma vogliono concentrare tutto il sesso, la droga e il rock’n’roll che non hanno mai sperimentato prima. Con risultati ovviamente molto cringe. Il film passa decisamente il test di Bechdel (1. devono esserci almeno due donne che 2. parlino tra di loro di qualsiasi argomento che 3. non riguardi un uomo). Il corrispettivo televisivo di questo film potrebbe essere la serie Pen15 di cui vi ho parlato recentemente. Stesso livello di estrogeni, sesso e situazioni cringe. Interessante. #recensioniflash

THE WILLOUGHBYS (Kris Pearn, 2020)
Nel caso non sappiate cosa fare, vi segnalo che è uscito su Netflix un altro piccolo gioiellino di animazione, prodotto (e anche interpretato) nientepopodimeno che da Ricky Gervais. Tratto da un libro illustrato di Lois Lowry e diretto da Kris Pearn (che arriva dal team di Piovono Polpette), La famiglia Willoughby è consigliatissimo. Sempre se ai vostri bimbi piacciono le storie spiazzanti e un po’ scorrette. I quattro fratellini Willoughby vivono nella casa avita un po’ “fuori dal tempo” (diciamo che sono fermi al 1919) con due genitori egoisti, anaffettivi e totalmente sordi alle “esigenze bambinesche”. Ben presto capiscono che la cosa migliore è disfarsene, attirandoli in una vacanza avventurosa (e letale) in cui “i bambini non sono ammessi”. I Willoughby rimangono così “tecnicamente orfani”, ma i genitori prima di partire avevano chiamato una tata… da qui partono molte avventure esilaranti, ben realizzate tecnicamente, con un character design un po’ fuori dagli schemi e che a me ha fatto pensare ad un aggiornamento in chiave contemporanea e 3D di personaggi e sfondi in stile UPA (più Gerald Mc Boing Boing che Mr. Magoo) passato per la sensibilità del Cartoon Network fine anni ’90 (tipo Dexter o Powerpuff Girls prima maniera). I bambini sono ben caratterizzati, la tata esuberante e amorevole fa da piacevole contraltare, a un certo punto c’è un personaggio che sembra preso di peso dai pennelli di Heinz Edelmann in Yellow Submarine, arcobaleni e tutto. Tutto il film è narrato da un gatto, con la voce di Ricky Gervais. Non perdetelo. #recensioniflash

ONWARD (Dan Scanlon, 2020)
C’è questa cosa che non ci pensiamo ma il cinema si è congelato ai primi di marzo. Bulimici di serie TV per non pensare alla pandemia in corso, non abbiamo più pensato ai film. Stasera vi parlo di un film che è uscito nei primi giorni del virus, e che ovviamente non ha avuto gli incassi sperati. Un film che è stato anche bistrattato per il fatto di essere – a detta di alcuni critici – un po’ scontato. Ma voi lo sapete che a me piacciono i casi disperati. E che con la Pixar vado sempre un po’ controcorrente, come il barcarolo. Voglio dire, credo di essere una delle quindici persone al mondo a cui è piaciuto alla follia Il Viaggio di Arlo. Ecco, allora vi presento Onward. Un film che racchiude mood molto diversi, dalla parodia alla commedia stile Apatow/Feig (le vibrazioni di Freaks and Geeks scorrono potenti), dal fantasy al grottesco, tanto che a me ha ricordato anche un po’ Heavy Trip, un film finlandese su una band di death metal che… ma sto divagando. Onward parte da una storia vera, l’esperienza del regista Dan Scanlon (Monsters University) che ha perso il padre poco dopo la nascita, restando solo con la madre e il fratello di un paio d’anni maggiore. Questo nucleo costituisce la premessa del film, abbinata a un world building un po’ strano. Ci sono elfi, ciclopi, unicorni e dragoni, ma la magia è sfumata e ora questi personaggi vivono in un mondo moderno, suburbano, con le insegne dei negozi un po’ gotiche tipo Shrek, ma tutto sommato più vicino al mondo di quel disastro di Bright con Will Smith. Ian (Tom Holland) è l’elfo protagonista, che vive con la madre e il fratello maggiore Barley (Chris Pratt). Per il sedicesimo compleanno di Ian ricevono un regalo dal padre morto quando Ian era in fasce: un incantesimo che lo farà tornare in vita solo per un giorno. Qualcosa però va storto, e il corpo del padre ritorna solo a metà… quella di sotto. Si parte per una quest epica allo scopo di trovare la Gemma della Fenice che potrebbe permettere ai due fratelli di completare l’incantesimo, accompagnati da musiche che a volte ricordano gli score dei più noti film fantasy e più spesso spingono sull’hard rock anni ’70 in stile Styx, Rush, etc. e da continui riferimenti al mondo dei giochi di ruolo. Il film è molto godibile e ricco di invenzioni visive magari non sorprendenti ma sempre interessanti e comunque azzeccate. Si nota anche lo sforzo di Disney/Pixar nell’ammettere che mmmmmmsì, i personaggi LGBTQI “esistono” (una poliziotta ciclope con la voce di Lena Waithe dice “anche la figlia della mia ragazza mi dà il tormento”). Siamo portati a pensare che tutta l’avventura sia un preludio al momento in cui finalmente Ian vedrà il padre per la prima volta, ma non è quello il punto. Il punto è il rapporto tra i due fratelli, e lo è sempre stato, anche se loro non lo sapevano. E il finale non è proprio scontato. Insomma, a me è piaciuto assai. Magari non entra nella top 5 Pixar (che per ora per me include Wall-E, Ratatouille, Up, Coco, Toy Story 3), ma viene immediatamente dopo. Sarà certamente per il feeling alla Freaks and Geeks. #recensioniflash

LA SCUOLA DELL’ASSENZA

L’altro giorno l’ennesimo post che ho letto sulla situazione della scuola (era un post di Luca De Biase, come sempre riflessivo e stimolante) mi ha tirato fuori un commento un po’ lungo, così lungo che poteva essere un post a sé stante sulle meraviglie della didattica a distanza e sul miraggio di una scuola in presenza a settembre. E allora, eccolo qua.

Premetto che io ho un figlio che quest’anno ha fatto (si fa per dire) la prima elementare, quindi le mie riflessioni sono per forza di cose molto legate all’esperienza personale e familiare. Lo dico perché non ho alcuna pretesa di essere più di tanto universale nel mio ragionamento. Con tutta probabilità ogni scuola, proprio come ogni bambino, fa storia a sé.

E quindi, cosa è successo? Lo sappiamo tutti, a fine febbraio scatta l’emergenza Covid-19, così, da un giorno all’altro. La risposta della scuola, dopo qualche giorno di sconcerto, è la famosa didattica a distanza. Cosa vuol dire, nella pratica? La prima settimana passa attraverso la comunicazione di compiti su un gruppo WhatsApp di classe. Poi i docenti si confrontano tra loro e la scuola decide di adottare un sistema di DAD univoco, scegliendo WeSchool. Hanno evidentemente vagliato sia Google Classroom che altri sistemi, per concludere che – per l’età dei bambini e la maneggevolezza dello strumento – WeSchool era la soluzione più adatta.

WeSchool si configura come una specie di Gruppo Facebook di classe, con un Wall dove tutti possono postare, una Board dove gli insegnanti possono inserire lezioni, video, dispense, esercizi in forma di gioco (generalmente presi da Scratch), un ambiente di Test dove inserire delle verifiche con valutazione integrata e una Live Classroom basata su Jitsi. Ben presto l’ambiente viene “rodato”: non si sa per quanto tempo dovremo utilizzarlo (al momento sono 11 settimane), ma le cose almeno tecnicamente procedono bene, soprattutto a confronto con altre scuole in cui – veniamo a sapere – gli insegnanti si rifiutano di ricorrere alla DAD, probabilmente più che altro per scarsa competenza loro.

Perché vedete, il fatto è che nelle prime settimane di lockdown la maggior parte dei genitori (salvo uno sparuto gruppo di pessimisti cosmici di cui mi pregio di far parte) premeva e sbuffava e fremeva di malcontento perché “non si fa abbastanza DAD”, ossia non si fanno abbastanza videolezioni, i docenti non sono abbastanza preparati, sono “vecchi dentro”, non sanno affrontare la situazione e non si può rimanere indietro col programma e dove andremo a finire signora mia. Noi genitori “da elementari” (ribadisco che qui il punto di vista personale comanda la narrazione) eravamo già oltre, e capivamo già allora che il punto non era quello. Ma intanto la Ministra trionfalmente annunciava che la DAD si fa, la DAD funziona, e dove non funziona la facciamo funzionare.

A conti fatti, basandomi su una risposta “emergenziale” e considerando la cosa da un punto di vista prettamente tecnico, io da genitore e nerd sono soddisfatto di come è stata affrontata la DAD dai maestri di mio figlio, pur vedendo notevoli criticità nello strumento usato. In una società come quella italiana, fatta di piccole corporazioni tutte in lotta tra loro e tutte pronte a tirare la giacchetta al ministro di turno, non si può ignorare che alcuni docenti erano e sono tuttora “contro” la DAD per il semplice motivo che li porta fuori dalla loro comfort zone pedagogica. Da noi però tutti i maestri (di italiano, matematica, inglese e perfino quella di religione) si sono formati al volo sullo strumento, ne hanno testato potenzialità e limiti, hanno creato esercizi, cercato video e giochi accattivanti su YouTube e Scratch, anche se prevalentemente hanno continuato a distribuire le maledette “Schede” – in sostanza dei documenti in PDF da stampare e compilare per esercizio (le vecchie abitudini sono dure a morire).

Ecco il primo limite: la DAD presuppone che ogni famiglia abbia in casa una stampante funzionante e TANTA carta. Per non parlare poi dell’elefante nella stanza: la DAD ha messo in luce più di qualsiasi rapporto o studio accademico il digital divide italiano. Il 30% degli allievi non ha un PC o un tablet per collegarsi alle lezioni live (che da noi sono stabilite in 3 ore a settimana, una di inglese, una di italiano, una di matematica). Se non ce l’ha, può collegarsi dallo smartphone di un genitore, ma non è detto che la fruibilità sia la stessa. L’accesso all’istruzione improvvisamente va a due velocità: molti “restano indietro”. Anche qui, la nostra scuola è venuta molto velocemente in aiuto degli studenti in situazioni di disagio, fornendo tablet a chi ne aveva bisogno (fun story: hanno dato tablet con account da admin, per cui i bambini che li usano possono a loro piacimento zittire o espellere dalle lezioni on line tutti gli altri bambini, haha).

In definitiva: la DAD è stata un’esperienza per certi versi positiva, se non altro nella misura in cui ha forzato la mano a docenti, genitori e allievi a familiarizzare con una tecnologia utile e a costruirsi un’alfabetizzazione digitale (di ritorno per i docenti e i genitori, fresca per i bambini) che magari non avrebbero avuto occasione di avere, non così presto e non così in fretta. Abbiamo capito che si può fare, con un po’ di sforzo e di impegno, ma abbiamo anche realizzato molto in fretta che non è la stessa cosa per tutti gli ordini di scuola.

Per molti versi infatti la DAD nella mia esperienza è stata negativa, per una semplice questione che oggi, dopo tre mesi di lockdown delle scuole, è evidente a tutti. La scuola non è solo “istruzione”, è soprattutto “educazione” e “relazione”. I bambini di prima elementare, a differenza degli studenti delle medie e delle superiori, soffrono la videolezione. Tentano in ogni modo di interagire one to one, sono insofferenti, hanno uno span di attenzione molto basso, trovano difficile rispettare le regole che pure hanno imparato dei microfoni spenti, dell’alzata di mano, etc. Interrompono la lezione per raccontare una storia, dicono ai maestri che gli vogliono bene, a volte piangono o si scollegano, ma soprattutto devono essere costantemente seguiti da un genitore mentre sperimentano questa cazzo di relazione a distanza che da un lato ti illude di avere un amico o un adulto di riferimento vicino a te e dall’altro non fa che ribadirti quanto sei fottutamente solo. Inutile negare che il lockdown ha avuto un effetto pesantissimo su di loro, anche se non lo danno a vedere (lo capiremo meglio dai conti degli psicologi tra una decina d’anni).

Per questo le proteste dell’ultimo weekend, quelle organizzate sull’onda della campagna #noncisiamo di Mammadimerda (che a sua volta mette l’accento sul pericolosissimo problema sociale del peso che ricade sui genitori che lavorano in un momento in cui i bambini sono costretti a stare a casa) sono state particolarmente sentite soprattutto da chi come me ha i bambini alle elementari. La questione non è se la DAD sia stata un successo o meno. Nell’emergenza ci ha messo una pezza, e tutti quanti hanno imparato qualcosa. La questione è stata (ed è ancora) la totale mancanza di discorso pubblico sulla scuola, salvo la tradizionale sequela di minchiate vaghe della serie “abbiamo istituito una task force” e “rifletteremo su come riaprire”.

Ora arriva il punto chiave, e vi prego di non pensare che questa affermazione mi contraddistingua come un genitore no-vax, un babbo pancino, un irresponsabile runner padrone di cane e amante della movida, un veterosindacalista amico dei docenti che non vogliono impegnarsi. Sono solo un genitore di un bimbo di sei anni, e dalla mia posizione particolare penso questo: la scuola DEVE riaprire in presenza. La scuola avrebbe dovuto riaprire in presenza già a metà maggio, almeno per far finire l’anno con una parvenza di normalità. In presenza, ma in sicurezza. All’aperto, dato che la stagione lo consente. A piccoli gruppi, a turni, distanziati, con mascherine, insegnando ai bambini le regole della sanificazione, spedendoli a lavarsi le mani almeno 4 volte al giorno, invitandoli a pulire da soli i loro banchi come in Giappone, gestendo diversamente il sistema di ristorazione scolastica. Ci avete fatto caso? I protocolli di sicurezza sono stati scritti per le aziende, per i parchi, per i bar e i ristoranti, per gli stabilimenti balneari, per i negozi, a quanto pare addirittura per i centri estivi, ma NESSUNO ha scritto un protocollo di sicurezza per le scuole. Evidentemente è troppo difficile.

Se la riapertura per la fine dell’anno – lo abbiamo capito – è un’utopia, adesso che ci sono 4 mesi per studiare un protocollo di riapertura a settembre, la sensazione è quella che a Viale Trastevere pensino molto semplicemente di rivolgersi a una forma più o meno estensiva di DAD, vedendo solo il lato positivo dei successi ottenuti tra marzo e giugno. Ma questa cosa non può e non deve passare. Occorre una profonda ristrutturazione organizzativa, ma vorrei dire prima ancora proprio una ristrutturazione a suon di mattoni e calce della scuola italiana. Si può fare, se si ha la volontà di farlo.

Ma io sono un pessimista cosmico, e credo purtroppo che questa volontà non ci sia.

SERIE DA QUARANTENA

Tutte le volte che rientro nel blog mi rendo conto dagli aggiornamenti di WordPress di quanto tempo è passato dall’ultima volta. Stavolta c’era un motivo in più: il nuovo coronavirus, l’emergenza Covid-19, la quarantena. Tutt’a un tratto, la rivelazione. Sono praticamente undici settimane che non esco di casa… e non ne ho approfittato per scrivere Alla ricerca del tempo perduto CasaIzzo edition? Un tempo avrei occupato tutto il tempo possibile a scrivere, ma oggi ci sono tante distrazioni che implicano sempre e comunque fissare uno schermo: lo smart working, la didattica a distanza, i webinar, le videocall. Lo streaming. Soprattutto lo streaming.

Ecco perché oggi voglio approfittare per ripercorrere la mia quarantena con voi, usando la cronologia delle visioni di Netflix e Prime (e dei torrent), e raccontarvi quali sono state le serie TV che hanno caratterizzato la mia quarantena, per consigliarvele o meno. Tanto lo so che poi abbiamo visto tutti più o meno le stesse, quindi sarò molto tranchant nei miei giudizi (ovvero adotterò quando possibile la celebrata dicotomia capolavoro / merda) al solo scopo di polarizzare la discussione e alzare il livello dello scontro. Ma andiamo a incominciare…

FEBBRAIO / MARZO – FASE 0

Il 22 febbraio torno da un paio di giorni passati a Barcellona, a presentare un documentario realizzato con Bamboo Productions. Un momento celebrativo a base di cinema, tapas, passeggiate notturne, paella, tutto concentrato in due giorni. Sarebbe stata l’ultima volta che sarei uscito dai confini della città (e più o meno anche dai confini del divano di casa). In Italia si parlava ancora poco del Covid-19, c’erano i primi casi a Codogno e Vo’ Euganeo, si alzavano le sopracciglia vedendo che la gente cominciava a fare incetta di Amuchina, farina per dolci (o lievito) e guanti in lattice. Le vacanze di carnevale finiscono, ma le scuole restano chiuse. Parte a singhiozzo la DAD, la didattica a distanza, in ufficio tutto sembra irreale (e infatti dopo poco tempo veniamo proiettati in una dimensione ancora più irreale, quella dello smart working). In quei giorni, il mio orientamento è stato soprattutto teen, un po’ fantasy e un po’ splatter, ma soprattutto teen.

LOCKE & KEY

Tratta da un fumetto ideato dal figlio di Stephen King, sulla carta una cosa molto edgy, alla prova dei fatti… beh, una serie fantasy per tutta la famiglia. Tre fratelli esplorano l’inquietante casa di famiglia e scoprono che il defunto padre era al centro di un misterioso complotto per nascondere delle chiavi magiche che aprono dimensioni fantastiche (ma una creatura demoniaca li aspetta al varco). Ci può stare. Ci sono dei momenti visivamente belli, alcuni plateali rimandi all’estetica del Re, ma protagonisti un po’ antipatici. L’idea di base però è carina, credo che guarderò anche la seconda stagione.

I AM NOT OKAY WITH THIS

Qui partiamo con la pregiudiziale perché c’è Sophia Lillis e tutto quello che tocca Sophia Lillis bisogna solo venerarlo strisciando nudi a terra. Comunque. C’è questa tipa che ha i poteri, un po’ tipo Carrie, ed è costantemente incazzata. C’è l’amico nerd che abita sull’altro lato della strada che vorrebbe stare con lei ma il sesso è imbarazzante. C’è il classico distillato di anni ’80 che Netflix cerca in tutti i modi di propinarci, e funziona. Sette episodi, alla fine succede una cosa alla Carrie, ma non dico nulla. Qui i protagonisti invece sono eccezionali.

THE END OF THE F***ING WORLD S2

La seconda stagione è un po’ più meh rispetto alla prima, ma si fa guardare. C’è di mezzo Bonnie, la fidanzata dell’uomo ucciso da James e Alyssa nella prima stagione, e tutto ruota intorno a una vendetta che non arriva mai, non arriva mai e quando arriva… Boh è un po’ sgonfia. Comunque, splatter anche in questa stagione e questo è un po’ ciò che conta. Volutamente sgradevole anche nella recitazione, si fa comunque guardare.

ON MY BLOCK S3

Son due anni che vado dicendo che On My Block è una delle serie teen più vere e più godibili in circolazione. Risate e lacrime vanno a braccetto in questo ritratto della vita nei sobborghi di L.A., tra gang rivali e giornate a scuola, latinos e neri, pistole e primi amori. Per una volta niente nostalgia anni ’80 (casomai, cuoriosamente, anni ’90) e un finale shock che ribalta tutto quanto avevamo sperato in un sad ending che mi fa pensare che non avremo una quarta stagione. Comunque guardatela, spacca.

MARZO / APRILE – FASE 1

Intorno a metà marzo, abbiamo capito che la didattica a distanza non può funzionare. La stampante è diventata il nuovo totem familiare, senza stampante non si vive: occorre stampare le autocertificazioni. Una, dieci, cento autocertificazioni. Tutti dicono #andratuttobene (io no), tutti panificano (io no), nessuno sa esattamente cosa fare, la gente la prima settimana canta ai balconi (io no), la seconda settimana urla “state a casa” dai balconi (io no), la distanza di sicurezza, le mascherine introvabili, la coda al Lidl, la gente che scappa al sud e al sud non li vogliono, le terapie intensive, il silenzio, gli animali selvatici, la pasta madre, i morti, la curva del contagio, i DPCM, le bare in colonna, il sito dell’INPS che va in crash, tutti che fanno cose tipo che avevano sempre sognato di fare (io no) (anzi sì, ho cominciato una serie di dirette Facebook a tema classic movies che sto raccogliendo qua, se vi fa piacere) (se non vi fa piacere siete sgarbati e cattivi). In quei giorni le mie visioni hanno assunto un tono un po’ più cupo, per poi sbracare nel trash. Oddio, guardandomi indietro in realtà è tutto molto trash.

THE CHILLING ADVENTURES OF SABRINA S3

Vabbè. Questa andava vista per completezza. Sabrina è una di quelle serie che sono fresh per le prime due o tre puntate poi mostrano quasi subito la corda della loro autoreferenzialità. Comunque, alle serie derivate da un fumetto si perdona (quasi) tutto. C’è molto inferno, molto camp (molto più di prima, intendo), giovani corpi seducenti per tutti i gusti (c’è anche l’amica non binary che limona dopo 26 puntate di stracciamento di palle). Insomma, comunque ‘Brina diventa queen of hell ma c’è una nuova minaccia, i GRANDI ANTICHI (Chtulhu? No, un gruppo di giostrai con la passione per The Wicker Man). Caotico.

THE OUTSIDER

Qui varrebbe a imperitura memoria quanto ha scritto Zerocalcare sulle pagine di Best Movie. Comunque. The Outsider è una serie (tratta da Stephen King) molto solida, molto ben scritta, recitata, prodotta. Ha tutto di buono, c’è tensione, c’è mistero (oddio, io avevo letto il libro da poco, quindi mistero anche no, però insomma). Unico grande problema – che avevo rimosso – il fatto che l’antagonista principale si chiami El Cuco. Che cazzo, dài. Comunque, l’ho detto: solida. Recuperatela (questa va “recuperata”, non so se mi spiego).

HUNTERS

Guardo poco Amazon Prime, ed è un peccato perché dentro ci sono chicche come Hunters, dove c’è Al Pacino che gigioneggia in mezzo a un azzeccatissimo cast di improbabili tipi anni ’70 (tra cui Ted Mosby coi baffoni) che tutti insieme costituiscono il supergruppo dei “cacciatori di nazisti”! Sì, sangue, ultraviolenza e tarantinate varie coi nazi cattivissimi che muoiono male (ma muore male anche qualcuno dei buoni). Molto criticata per aver romanzato l’olocausto nei flashback ambientati ad Auschwitz, io comunque l’ho trovata un buon passatempo, c’è anche il supercolponediscenafinale.

TIGER KING

Sulla carta, non c’è nulla di più lontano dai miei gusti di Tiger King, eppure. Molti contatti che stimo continuavano a proporla, e allora l’ho guardata. Tiger King, con il suo protagonista larger than life Exotic Joe (gay, white trash, ossessionato dai grandi felini e dalle armi), ci fa comprendere l’America che non siamo abituati a vedere. In poche puntate questa serie documentaria usa il true crime per parlarci della società che ha votato Trump. Si capiscono molte cose. E poi c’è anche uno special finale condotto da Joel McHale, tanto amore!

LA CASA DE PAPEL

La quarantena chiama necessariamente La casa de papel, è quasi un’equivalenza obbligata. Non l’avevo mai considerata anche perché avevo provato a guardarla in tempi non sospetti e l’avevo abbandonata dopo 20 minuti. Stavolta l’ho vista TUTTA, per far piacere a mia moglie che è diventata una fan. Responso: ho dormito per la maggior parte delle prime due stagioni (mi facevo raccontare la trama il mattino dopo a colazione). La terza e la quarta stagione mi hanno invece tenuto sveglio, si vede che i soldi di Netflix sono serviti a qualcosa. Ma è morta Nairobi, puta mierda, viva Nairobi!

APRILE / MAGGIO – FASE 2

La fase due, ormai è acclarato, è come la fase uno ma senza quell’afflato poetico/eroico dello #stateacasa, tutti sono scazzati, demotivati, da un pimpante eroismo siamo arrivati prima alla disperazione, poi alla delazione, all’incattivimento, al runner bastardo, ai pisciatori di cani, ai passeggiatori di bambini, c’è troppa gente in giro, ci vuole l’esercito, dagli all’untore, i TSO, le violenze domestiche, le dirette Facebook (quelle del Pres, non le mie), dire tutto per non dire niente, i dati ufficiali, i dati non ufficiali, i tamponi, i sierologici, i reagenti, gli amici che perdono i congiunti, i congiunti, diomadonna, i congiunti. E poi naturalmente la cucina: “cosa facciamo a pranzo”, e dopo pranzo “cosa facciamo a cena” e io non voglio più cucinare per almeno due anni. In questo caos grottesco, in CasaIzzo ha prevalso il dramma, l’introspezione. Oddio, prevalso. Diciamo che si è preso un buon 50% di visioni.

CRISIS IN SIX SCENES

Ragazzi, ci ho provato. Peraltro uno dei libri che ho letto in quarantena è stato proprio “A proposito di niente”, autobiografia di Woody Allen, moderatamente interessante e divertente. Eppure, non so. Continuo a non essere in sintonia con il Woody del nuovo millennio. Si vede che ha mestiere, che fa la sua cosa in scioltezza, ma… un po’ di noia c’è, anche se Miley Cyrus è sempre bona, e i dialoghi tra Woody e Elaine May sono sopra la media. Ah, si parla di diritti civili nell’America alto borghese dei primi anni ’60.

AFTER LIFE S2

Ricky Gervais è un genio. Tolto questo dal tavolo, possiamo dire che la seconda stagione di After Life è leggermente al di sotto dei risultati della prima? La struttura è identica (e perciò mostra un tantino la corda) e l’unica differenza è che Ricky cerca di essere più empatico e meno caustico con le persone. Certo è che lo zoo umano di cui si è circondato in questa serie vale tanto quanto lui (il mio preferito è il postino Pat, ma subito dietro c’è l’inquietante figlio della fidanzata del collega fotografo – perdonate il giro di parole lunghissimo ma non ho voglia di andare a reperire il nome del personaggio).

UNORTHODOX

Oh, la miniserie, che bella invenzione! Non dover aspettare un anno per vedere come va a finire la storia! Unorthodox è bella secca, quattro puntate di circa un’ora e bon. La storia vera è quella di una donna che rifiuta la sua comunità chassidica di ebrei ultraortodossi di Williamsburg (da cui il titolo) e che vive il suo sogno nascondendosi in un conservatorio di Berlino. Vabbè, comunque è curiosa perché è recitata mezza in inglese, mezza in yiddish e mezza in tedesco, poi c’è questa attrice Shira Haas che interpreta la protagonista che è super magnetica. Emozionante.

HOLLYWOOD

Una miniserie di Ryan Murphy. E già così avrei detto tutto. La storia è quella di alcuni giovani outsider che spingono per lavorare in uno studio cinematografico nella Hollywood post-war. Ovviamente ci sono un sacco di scene di sesso, gigolò, produttori assatanati che vogliono fare pompini (e questo è Jim Parsons, nel ruolo più anti-Sheldon Cooper immaginabile), Patti LuPone, teatralità a mille, un ritratto d’epoca filtrato attraverso la sensibilità camp di Murphy che alla fine somiglia più a una lunga puntata di Glee senza musical che non a una cosa “seria”. Comunque godibile, eh.

THE MIDNIGHT GOSPEL

Questa è stata la sorpresa più allucinante di tutta la quarantena. Prendi un podcast (che non conoscevo) dedicato a tematiche come meditazione, droghe, percezione di sé, morte e rinascita. Chiama Pendleton Ward (il creatore di Adventure Time) per creargli sopra una serie di immagini animate che non sempre o non del tutto sono in relazione con quanto viene detto in traccia audio. Mixa il tutto e niente… un’esperienza di pura psichedelia. Le ultime due puntate (se ci si arriva, perché è una serie “faticosa”) valgono qualsiasi cosa vista in TV negli ultimi anni. E strappano il cuore.

NEVER HAVE I EVER…

Torniamo a un teen drama, ma questa volta con la certezza che si tratti di un teen drama ben scritto. Never have I ever ha recensioni tutte positive, tipo il 100% di entusiasmoh, quindi dai. Sarà perché la protagonista (sfigata in botta per il figo della classe) è indiana, e molto della serie si basa sulla cultura indiana trapiantata in USA. O sarà perché per una volta hanno scelto attori credibili e situazioni non troppo sopra le righe. O sarà perché hanno scelto di chiamare John McEnroe e fargli fare la voce narrante (!!!). C’è un motivo per questa cosa di John McEnroe, comunque. E in effetti, nel suo genere, è una serie molto valida. Attendo con ansia la prossima stagione.

Mentre finisco di scrivere queste righe mi rendo conto che come al solito non ho saputo parlarvi di una cosa e una soltanto, e ho dovuto ficcarci dentro alcune considerazioni personali sul periodo che abbiamo vissuto negli ultimi tre mesi. Questo post è diventato quasi un diario della pandemia visto attraverso le serie TV. Ma se volete leggere veramente dei diari della pandemia, per ricordarvi quello che è successo in questi tre mesi che sono sembrati tre secoli, vi rimando a due amiche lombarde. Il diario del coronavirus di Barbara Sgarzi e Vivere nella paura di Daniela Losini sono due testimonianze vere, diverse, a volte buffe, ricche di introspezione e purtroppo anche devastanti.

E sono testimonianze che mi sono entrate nel cuore, più di qualsiasi serie TV.