Questo Natale ho ricevuto in regalo un libro che ho gradito moltissimo e che ha rinnovato, se mai ce ne fosse bisogno, il mio interesse e il mio amore per Edward Gorey e la sua arte vagamente inquietante.
La prima volta che ho letto Gorey, lo ricordo bene, avrò avuto 8 o 9 anni, su Linus o AlterLinus, che erano poi le riviste di fumetti che giravano in casa negli anni ’70. Non ricordo con precisione cosa fosse, forse “La bicicletta epiplettica” o “L’uccello Adolfo”, comunque sul libro succitato è certamente indicato (ha una copiosa bibliografia). Comunque sia, mi aveva fatto una notevole impressione. Una deliziosa impressione. Come bambino ero già cresciuto a suon di Dickens e Poe, di Carroll e Lear, e Gorey (di cui non conoscevo ancora il nome ma riconoscevo al volo il tratto) sembrava un misterioso e stranamente divertente distillato di tutto l’orrore, il nonsense, la fantasia e lo squallore vittoriano che amavo in quegli autori.
Oggi che Gorey è morto da 18 anni (ebbene sì, sembra un uomo dell’800 e invece è morto nel 2000) se lo nomini a qualcuno ci sono due distinte possibilità: o ti dicono “CHI?!?” o ti abbracciano con sguardo complice e ti sussurrano all’orecchio “Anche io amo Gorey alla follia”, perché essere fan di Gorey è un po’ come appartenere a una ristretta setta di persone che lo venerano e lo tengono come un piccolo tesoro, sfogliando di tanto in tanto le sue pagine.
Qui in Italia, dopo Linus, alcuni libri di Gorey uscirono per la BUR, e più recentemente c’è stato un po’ di movimento in Adelphi. Purtroppo la maggior parte delle cose sono in lingua originale (l’uomo ha prodotto più di 100 opere). Questo non è assolutamente un problema, nella misura in cui più spesso quel che conta sono le immagini, disegni a china nera dal tratteggio fittissimo, debitori dell’arte surrealista (che lui peraltro amava) e capolavori del non detto.
Gorey è famoso per il suo humor nero. In generale viene visto come un autore per bambini, ma lui ha sempre sostenuto di scrivere e disegnare per un pubblico adulto – peraltro detestava cordialmente i bambini, tanto da riservargli morti orribili in capolavori come “I piccini di Gashlycrumb” (un macabro abbecedario in cui ogni lettera è il nome di un bambino che muore in modo assurdo/banale/grandguignolesco) o “The Hapless Child”. Quello che attrae i bambini – cosa che posso testimoniare in prima persona e nell’arco di due generazioni – è il richiamo al “mostro sotto il letto” che viene però in un certo senso “sterilizzato” dal distacco emotivo e dall’ironia con cui i bozzetti vengono disegnati, raccontati, messi in rima.
Oltre al disegno, infatti, lo stile di scrittura (quasi sempre in rima) è debitore di quei limerick tanto cari a Edward Lear e che – tradotti in italiano – fanno subito quell’effetto “Corriere dei piccoli” che entra in collisione con i disegni quasi sempre francamente inquietanti. Prendiamo il caso de “L’ospite equivoco”, uno dei libri tradotti da Adelphi. Un essere tipo pinguino ma peloso e con le scarpe da tennis (chiaro riferimento a Gorey stesso, che girava sempre con lo stesso outfit, tipo Dylan Dog, e cioè pelliccia di castoro lunga fino ai piedi, dolcevita, jeans e sneaker bianche) si presenta a casa di una famiglia vittoriana. Nessuno sa cosa sia o cosa fare di lui, ma nel giro di pochi giorni questo essere entra nella vita di famiglia con le sue assurde abitudini, tipo mangiare le stoviglie, rubare gli asciugamani o simili e il libro finisce con la famiglia invecchiata e pensosa accompagnata dal solito pseudo-pinguino che – ci viene detto – è rimasto con loro per 17 anni. Il sorriso del nonsense si accompagna all’inquietudine del bizzarro, del fuoriposto, del mostruoso.
E così via, dai libri sui suoi amatissimi gatti (sempre 6, mai 7 perché sarebbero stati “troppi gatti”) ai bestiari mostruosi e fantastici, dagli alfabeti macabri ai libri sul balletto (la sua grande ossessione, vedeva un balletto a sera), dai morality tales vittoriani a libri su serial killer o su cugini omicidi. E poi, naturalmente, il teatro. Le persone un po’ più vecchie di me conoscono Gorey soprattutto per il suo allestimento a Broadway di Dracula nel 1977, quello con Frank Langella che fu poi portato su schermo due anni dopo da John Badham (il mio primo Dracula, per inciso, se non ricordo male visto in TV ancora prima di Christopher Lee o Bela Lugosi). Curiosamente – considerando che Gorey si definiva praticamente asessuale – il suo Dracula prevedeva la star più glam ed erotica che abbia mai interpretato il principe delle tenebre.
Il suo capolavoro assoluto, “The West Wing”, è un libro senza parole, in cui siamo invitati a vagare nell’ala ovest di un palazzo abbandonato: vediamo stanze vuote con tappezzerie strappate, un macigno su un tavolo, un viso fantasmatico dietro una finestra, un crepaccio nel pavimento. Ambienti vuoti, silenziosi, che stimolano l’immaginazione, inesplicabili e inquietanti. Non esiste una storia, ma la sensazione è che qualcosa di indicibile sia accaduto, o forse stia per accadere. Il lato umoristico è che Gorey produsse questo libro dedicandolo ad un critico newyorchese che lo aveva lodato per i suoi disegni parlando però male del suo stile di scrittura (“Ah sì? Beccati un libro senza scrittura, allora”).
Comunque sia, spero di avervi convinto che dovete amare Gorey.
Senza Gorey, per esempio, non avremmo Tim Burton (che visivamente gli deve moltissimo), e non avremmo Daniel Handler, alias Lemony Snicket (la cui scrittura, anche se meno ellittica, è totalmente nel solco di Gorey).
Potreste leggere anche questo recente e approfondito profilo del New Yorker, o farvi un’idea sulla mia apposita bacheca Pinterest (non so se ve l’ho mai detto, ma il mio profilo Pinterest è molto interessante).
“Life is intrinsically, well, boring and dangerous at the same time. At any given moment the floor may open up. Of course, it almost never does; that’s what makes it so boring.”