La prima volta che ho visto A Haunting in Venice di Kenneth Branagh mi sono addormentato dopo una ventina di minuti colto da uno sbadiglio di disappunto: cosa voleva ottenere Branagh con questo caleidoscopio di dutch angles fuori tempo massimo?
La seconda volta che ho visto A Haunting in Venice mi sono impegnato di più e mi sono abbastanza ricreduto. Branagh innesta il suo ormai tradizionale Hercule Poirot in un vero e proprio “giallo” nel senso argentiano del termine.
In questa storia a cavallo tra il mystery e l’horror, un Poirot autoesiliatosi a Venezia viene invitato a una festa di Halloween in un palazzo apparentemente infestato, all’interno della quale si incastra una seduta spiritica per provare a mettersi in contatto con lo spirito della figlia della padrona di casa apparentemente morta suicida anni prima.
C’è da risolvere il mistero della morte della giovane donna, e ben presto anche il mistero di altre due morti inspiegabili. Poirot deve decidere se credere o meno ai fantasmi mentre intorno a lui si muovono uno Scamarcio spaesato, una Tina Fey molto incisiva, una Michelle Yeoh ieratica e ambigua e un tot di altri personaggi molto “Agatha Christie”.
Tra cui un bambino irritante che legge Poe e ha uno spleen da adulto che ne ha viste troppe. Questo personaggio in particolare, chiave per la risoluzione dei delitti e specchio/ombra di Poirot, è il più argentiano del gruppo.
I punti di vista assurdi e allucinatori della camera sono gli stessi di Suspiria o di Inferno, alcune inquadrature sono esplicitamente citate, la peculiarità dei moventi e del modus operandi del killer sono gli stessi di Profondo Rosso, Tenebre o altri grandi film del maestro italiano.
Letto in questa prospettiva, A Haunting in Venice a me è sembrato un bellissimo omaggio alla grande stagione del giallo italiano, travestito da film di Hercule Poirot.