CHE TIPO DI FILM È THE MONKEY

Che tipo di film è The Monkey di Osgood Perkins? Ah, se lo chiedi a me, è un tipo di film molto particolare. Anche molto diverso da quello che ha fatto Perkins finora, sicuramente molto diverso da Longlegs. È tratto da un vecchio racconto di Stephen King, è supersplatter, ma è anche quello che con una infelice espressione potremmo chiamare una horror comedy. Se invece lo chiedete a mia moglie, “è un film del cazzo“.

Cioè, non so se mi sono spiegato: The Monkey è uno di quei film che o lo ami o lo odi, non ci sono vie di mezzo. Parte subito con il piede a mille sull’acceleratore (morte per fiocina e sbudellamento) ma anche con un tono grottesco / grindhouse e una recitazione sopra le righe che fa subito pensare a Creepshow (il film di Romero non a caso sempre tratto da King del 1982) o a Evil Dead 2 (il seguito slapstick del primo Evil Dead di Raimi). 

Cioè, è come se stessimo guardando la trasposizione di uno di quei fumettacci della EC Comics (o di Zio Tibia, se vogliamo riferimenti più italici) incrociati con il piglio fantasioso e sanguinolento di un Final Destination degli anni d’oro.

Come tutti sanno, il fulcro del film è la deliziosa scimmietta demoniaca che quando picchia sul suo tamburo fa morire male le persone a caso (a caso le persone e a caso anche la morte). La fantasia non manca: corpi fulminati, corpi esplosi, corpi decapitati, corpi divorati dall’interno da sciami di calabroni, impalati, bruciati, sparati, calpestati (occhio al sacco a pelo con la torta di ciliegie), sminuzzati, falciati, investiti e via morendo.

Quello che a mio avviso è più interessante è la dinamica (molto kinghiana) tra i due gemelli che trovano la scimmietta (da giovani interpretati da un bravo e sorprendente Christian Convery, da grandi dal sornione Theo James) e il loro rimpallarsi astio, vendette e consapevolezza della morte. Tutti i comprimari sono talmente sopra le righe da risultare delle macchiette che ti fanno urlare “ma perché” – eppure funzionano, in un certo modo assurdo. 

Se accetti di ridere dell’ineluttabilità della morte, The Monkey è il film per te. Osgood Perkins (uno la cui storia personale è talmente acida da averlo spinto a dichiarare che “questo è il suo film più autobiografico“) sicuramente ha imparato a riderne. Parecchio.

THE ELECTRIC STATE: OCCASIONE SPRECATA

È difficile dire qualcosa di positivo su The Electric State dei fratelli Russo, il pompatissimo (di soldi) film Netflix che doveva essere il culmine dell’offerta 2025. Ci provo. The Electric State è tratto da un libro illustrato bellissimo di Simon Stålenhag che da noi è uscito nella collana Oscar Ink e ci prova veramente tantissimo a restituire quelle atmosfere a metà tra sogno e retrofuturismo.

Il problema poi è che ci troviamo di fronte a Millie Bobby Brown e Chris Pratt, che sono – come dire – un po’ fuori contesto. Capisco l’esigenza di squadernare un parterre di star più o meno affiliate a Netflix (ci sono anche Giancarlo Esposito, Stanley Tucci e Ke Huy Quan). Ma c’è la sensazione che tutti i cameo siano sprecati e che i due interpreti principali siano totalmente fuori posto.

Azzardo: potrebbe essere un problema di scrittura, la questione di aver voluto spingere un po’ troppo sul pedale dell’action e degli effetti speciali per creare uno di quei buoni vecchi film di avventura per famiglie: ci sta. Ma il risultato è spiazzante, altalenante e appunto disequilibrato.

Si salvano giusto alcune interpretazioni “robotiche” (con le voci di Woody Harrelson, Alan Tudyk, Hank Azaria, Brian Cox) e il ragazzino che purtroppo vediamo solo all’inizio e alla fine, Woody Norman, già protagonista eccezionale di C’Mon C’Mon, nel ruolo di Cristopher.

Ah, la trama: in una ipotetica guerra tra umani e robot svolta negli anni ’90, gli umani hanno vinto e i robot vivono in una riserva isolata dal mondo. Intanto Millie Bobby Brown resta orfana e perde anche il fratello geniale Cristopher. Un giorno le si presenta un robot che sembra aver introiettato la coscienza del fratello. Seguono avventure pazze in compagnia di Chris Pratt per sgominare la multinazionale cattiva e salvare il fratello.

Finale dolceamaro aperto, ma grandissime perplessità.

PADDINGTON VS LE SUORE

C’è stato un tempo in cui Paddington e/o Paddington 2 erano entrati nella classifica dei 250 migliori film di IMDB al secondo posto, tipo. O forse me lo sono sognato. Comunque è fuor di dubbio che i film della serie di Paddington sono bellissimi e nulla hanno da invidiare ai valori produttivi e mitopoietici della serie di Harry Potter, per citare un’altra IP molto british. I film di Paddington sono splendidamente umoristici, ottimamente interpretati dai migliori attori britannici in circolazione e Ben Wishaw rende l’orsetto eponimo assolutamente “vivo”.

Paddington in Perù mostra un pelo di stanchezza nel “non saper più dove andare a parare” e forse anche nel cambio di regia (qui è Dougal Wilson). La famiglia Brown è un po’ persa, ognuno si fa i cazzi suoi, non c’è più quel feeling da “tutti sullo stesso divano”, ma prontamente arriva una lettera dalla Casa di riposo per Orsi in Perù, dove vive la zia Lucy che ha tanta nostalgia di Paddington.

Ovviamente tutta la famiglia parte per un viaggio esilarante in Perù e nella foresta amazzonica, accompagnati da due personaggi potenti come la madre superiora a capo della casa di riposo (Olivia Colman) e il capitano della barca che fa le crociere sul Rio delle Amazzoni (Antonio Banderas), entrambi un po’ squinternati e soprattutto estremamente sospetti (lascio a voi immaginare chi dei due è più sospetto alla fine).

Il macguffin qui è che la zia Lucy sembra scomparsa e a quanto pare questo ha a che fare 1) con le origini stesse di Paddington e 2) con la mitica pista verso Eldorado tanto bramata dai conquistadores spagnoli (di cui ovviamente Banderas è un diretto discendente). Che altro dire: la Colman si porta un po’ tutto il film sulle spalle, quando appare lei è come se ci fosse una sferzata di energia folle. Il lieto fine è d’obbligo e non è scontatissimo. Di Paddington non se ne ha mai abbastanza.