LE ESTATI DI FRANÇOIS: SLOCUM ET MOI

Di Jean-François Laguionie avevo visto anni fa Louise en hiver, e non sapevo che fosse un pilastro dell’animazione franco-belga. L’ho scoperto andando a vedere Slocum et moi, il suo ultimo film in concorso ad Annecy 2024. Disegni a carboncino e acquerello delicatissimi per la storia di un ragazzo che cresce in un villaggio sulla Marne nell’immediato dopoguerra.

François si muove tra casa e scuola osservando tutto e tutti dal suo punto di vista, e in particolare i suoi genitori Geneviève e Pierre detto dagli amici Slocum, per la sua passione giovanile per le avventure di Joshua Slocum, il primo a fare un giro del mondo in vela in solitaria a fine ottocento.

Pierre – che peraltro non è nemmeno il padre biologico di François – decide di costruire nel suo giardino una replica della barca di Slocum e passa ogni sua giornata immerso in questo progetto con la complicità della moglie e in seconda battuta anche del figlio con il quale ancora si stanno “misurando” a vicenda.

François vive le sue estati con la fidanzatina, con la quale scappa di nascosto fingendo di andare in vacanza con un amico, e tenta di decifrare le difficili dinamiche familiari mentre il film è inframmezzato da scene di navigazione di Joshua Slocum tratte dal suo diario di bordo.

Slocum et moi è un film che si avvicina al primo Truffaut, con un character design che deforma i tratti dei personaggi (specialmente femminili) in un modo un po’ alla Modigliani, e che se lo trovate ancora in sala suggerisco di vedere… cercatelo in giro.

IL FILM SPERIMENTALE DI TAKESHI KITANO

Ho un problema con questo ultimo, brevissimo, film di Kitano. Lui lo definisce un film sperimentale, e certamente è così. Si tratta di un gioco di specchi cinematografico per cui lui ha tirato in ballo cubismo e astrattismo e che in realtà è “semplicemente” un film che mira a giustapporre le due anime di Beat Takeshi.

L’anima autoriale, quella dei film come Violent Cop, Sonatine o Brother, sta nella prima metà del film (circa mezz’ora). È la storia di un killer ormai anziano che viene catturato da due detective e convinto a infiltrarsi alla corte di un capo yakuza per ucciderlo. 

Poi c’è l’anima “Beat”, quella comica del personaggio televisivo che faceva cabaret negli anni ’70 e ’80 e che ha inventato il format Takeshi’s Castle (da noi rimaneggiato nel mitico Mai Dire Banzai). Ed ecco che la stessa storia viene ripercorsa nella seconda parte del film in chiave comica, slapstick, demenziale.

Il problema che ho con questo film di Kitano è che io non ho mai molto sopportato la sua vena comica televisiva tanto quanto ho apprezzato il Kitano autore cinematografico (se devo dire, poi, prediligo i film tipo L’estate di Kikujiro o Il silenzio sul mare). Quindi Broken Rage per me è un oggetto sperimentale certamente, ma – diciamo così – poco coinvolgente. Sta su Prime Video, se volete.

DOG MAN MA NON QUELLO DI GARRONE

Il nuovo film tratto dai libri illustrati di Dave Pilkey (autore della serie di Capitan Mutanda, di cui Dog Man è una sorta di spin-off) è uno di quegli strani esperimenti Dreamworks che mette d’accordo adulti e bambini nel divertimento.

Dog Man è coloratissimo, ipercinetico, concepito e disegnato come lo farebbe un bambino (e infatti dovrebbe essere un fumetto ideato da George e Harold, i due protagonisti di Capitan Mutanda) ma animato con le tecniche più sofisticate, secondo la lezione che gli ultimi film animati anche di Sony Pictures Entertainment hanno indicato.

La premessa è già assurda in partenza: Dog Man è il risultato della fantasia di una chirurga e un’infermiera che raccolgono un poliziotto e il suo cane dopo un brutto incidente. Entrambi sono in pericolo di vita, ma si risolve cucendo la testa di cane sul corpo del poliziotto, cosa potrebbe mai andare storto?

Ovviamente la fidanzata lo lascia e lui resta a vivere in una cuccia sovradimensionata alla perenne caccia della sua nemesi, il malvagio gatto Gino (Petey in originale). I villain in Dog Man hanno le voci migliori: Petey è Pete Davidson e il pesce che fa da boss finale è doppiato da Ricky Gervais.

Petey è anche il centro emotivo del film: gatto cattivo perché abbandonato da un padre anaffettivo, si riproduce per clonazione e ottiene però… un sé stesso cucciolo che funge da figlio. Lo abbandona, perché non sa fare altro, ma prima della fine del film scoprirà le gioie della paternità.

Tutto sommato, un film che sono stato contento di vedere, anche se avrei preferito la versione originale.