NOSFERATU, LUCI ED OMBRE

Aspettavo al varco Robert Eggers con il suo Nosferatu da quando l’ha annunciato, salvo poi scoprire che è un suo progetto del cuore da quando all’età di 8 anni ha visto il film di Murnau in VHS. Io il film di Murnau l’ho visto più tardi, all’università, ma a 8 anni vidi il Nosferatu di Herzog, che comunque mi ha segnato per sempre come appartenente al team Orlok piuttosto che al team Dracula.

La storia di Nosferatu la sapete, nel 1922 Murnau decise di trarre un film (muto, espressionista, onirico e iconico) dal Dracula di Stoker, ma non avendo i diritti ha cambiato tutti i nomi e le ambientazioni, con grande scorno della vedova Stoker che lo denunciò ma ormai Nosferatu aveva iniziato il suo viaggio nell’inconscio collettivo.

Non che i film di Dracula (da Bela Lugosi in giù) siano meno belli, ma Nosferatu ha le sue prerogative: l’incubo, la bestialità del vampiro, il tema centrale della bella e la bestia, il sacrificio supremo per la salvezza di tutti. Comunque sia: anche il Nosferatu di Eggers viaggia sugli stessi binari di Murnau ed Herzog con in più due cose che possono essere sia pregi che difetti.

La prima: Eggers mette in campo tutto il suo puntacazzismo nelle ambientazioni fedelissime alla Germania del 1830, nel mobilio, nei costumi, nella fedeltà al folklore per cui il vampiro è essenzialmente un cadavere semiputrefatto che si nutre facendo rumori slurposi e mordendo le vittime sul petto (assolutamente non sul collo). Inoltre, essendo Orlok un nobile romeno del ‘400, parla romeno antico e ha un bel paio di baffoni a spazzola come si conveniva ai nobili romeni in quell’epoca.

La seconda: tutto il film è concentratissimo in una ricerca formale assurda. In Nosferatu troverete alcune delle inquadrature più belle e inquietanti di Eggers, specialmente nella parte in cui Hutter (Nicholas Hoult) arriva nel castello. Ma sono tutte, invariabilmente inquadrature di tenebra, oscurità, nero pece e blu di prussia in cui a tratti emerge qualcosa di indefinito. Oppure sono inquadrature in controluce estremo, per cui degli attori riesci a vedere giusto le silhouette. Non è così per due ore, chiaro, ma direi che un buon 60% di film è buio pesto o in controluce.

Lo stesso Orlok (Alexander Skårsgard) non si vede mai veramente salvo in una inquadratura velocissima nel primo tempo e nei due minuti finali di film. Lo si sente spesso (Skårsgard si è inventato un vocione dall’oltretomba che – insieme alla costante colonna sonora di crepitii, mormorii e fruscii – vale da sola il prezzo del biglietto), ma quando vai a vedere Nosferatu vorresti vedere Nosferatu.

E invece vediamo tantissimo di Ellen (Lily-Rose Depp) che Eggers rende il personaggio principale del film inventandosi un prologo in cui è lei adolescente a “chiamare” Orlok e risvegliarlo, per cui la storia è che lui va da lei non per caso ma perché deve. Sono legati da un antico patto di sesso e samba. La metafora di grana un po’ grossa è persino esplicitata da Orlok quando le dice “I am nothing but an appetite” o qualcosa del genere: il vampiro è la voglia di sesso della giovine ottocentesca che deve nascondere per decenza la sua lussuria, ma non ci riesce e si contorce facendo le facce della morte.

Quando poi entrano in scena Simon McBurney (Herr Knock, che qui è sia il Renfield della situa, sia il capo dell’agenzia immobiliare dove lavora Hutter) e/o Willem Dafoe (che qui è Von Franz, l’omologo di Van Helsing), la lancetta dell’overacting va a 14.000 con risultati a volte (credo volutamente) grotteschi.

Non so, a me tutto ciò ha lasciato da un lato affascinato, dall’altro perplesso. Letteralmente, Nosferatu è un film “senza sangue” (se ne vede pochissimo), bellissimo da (intra)vedere ma pochissimo coinvolgente o emozionante. Speravo in meglio, insomma.

GLADIATOR II, LA FINE DELL’IMPERO

Ci tenevo a finire l’anno vedendo una trashata fatta bene. Gladiator II è ruffiano fin dall’inizio, con i titoli di testa animati in uno stile vagamente reminiscente della famigerata sequenza animata di Caligola di Tinto Brass (recentemente restaurata in un “ultimate cut”). Dai credits abbiamo dunque un breve riassunto di Gladiator, per chi ne avesse bisogno (ad esempio: io).

Poi inizia la storia di Hano (Paul Mescal), sposo guerrigliero in terra di Numidia che affronta la flotta romana capitanata dal generalissimo Acacius (Pedro Pascal) che in una lunga scena di assedio gli uccide la moglie e lo fa prigioniero. Classico Gladiator. E niente, poi da lì siamo nel più classico dei sandaloni con Ridley Scott che evidentemente si diverte tantissimo, anche se chi si diverte più di tutti è evidentemente Denzel Washington nel ruolo del lanista sponsor di gladiatori slash complottista slash eminenza grigia che vuole detronizzare gli imperatori gemelli Geta e Caracalla (Geta è Joseph Quinn di Stranger Things, Caracalla è Fred Hechinger di Thelma).

Ci sono alcuni attori che tornano, principalmente Connie Nielsen nel ruolo di Lucilla che farà la grande rivelazione che tutti più o meno sanno dall’inizio (ma se non la sai non la dirò qui) e che casualmente è anche la moglie di Acacius e insieme a lui sta tramando per riportare il senato detronizzando i due imperatori: poveri imperatori, tutti li vogliono detronizzare per un motivo o per l’altro.

E niente, ci sono delle belle scene d’azione, c’è tutta la CGI più orribile che ti puoi aspettare (i babbuini santiddio) e ci sono le ovvie inesattezze storiche che è lecito aspettarsi da un sandalone di Ridley Scott, compreso il senatore che legge il giornale al bar. 

Come sequel non è male, anzi è abbastanza nelle corde “pop” del primo film: è divertente, non fa male a nessuno, forse è un po’ fuori tempo massimo, ecco.

IL MALE NON ESISTE… O NO?

Evil Does Not Exist, Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi è precisamente il film giusto da guardare il giorno di Natale: lento, contemplativo, con la sua carrellata da un punto di vista impossibile sulle cime degli alberi nel bosco che accompagna i primi dieci minuti di film.

Poi vediamo Takumi, il protagonista, spaccare la legna e raccogliere l’acqua della sorgente per un po’, oppure lo vediamo vagare con la figlia Hana e spiegarle le differenze tra gli alberi.

Poi capiamo che c’è una società che per prendere i fonti per le imprese legati al Covid ha deciso di costruire un Glamping nel villaggio di Takumi, ma la popolazione locale si oppone per una serie di problematiche legate alle fosse settiche e al flusso delle acque. Tutta la parte centrale del film è come una interminabile riunione di condominio, alternata con le call pacate ma decisamente turboliberiste del management della società appaltatrice.

La svolta: la società tenta di accaparrarsi Takumi come consulente. Il che potrebbe anche funzionare, dato che Keisuke e Yuuko, i rappresentanti della società, nel frattempo hanno imparato ad amare e rispettare il villaggio di Takumi. Uno dei problemi potrebbe essere quello dei cervi, che in quel territorio sono tanti e oltretutto quando i cacciatori gli sparano diventano anche pericolosi.

Improvvisamente tutti si rendono conto che Hana è sparita (c’è da dire che la bambina è spesso lasciata a sé stessa). E niente, in un finale a metà tra il reale e l’onirico che ha lasciato basito più di uno spettatore si scopre che… il male non esiste, e che la storia dei cervi feriti che sclerano per difendere i cerbiatti era solo una mossa preparatoria per quello che succede alla fine e che non posso dire se non avete ancora visto il film.

Segue per qualche minuto la stessa carrellata dell’inizio ma di notte invece che di giorno e con Takumi che ansima invece che nel silenzio. Hamaguchi è così, prendere o lasciare.