THE LAST SHOWGIRL E IL SOGNO AMERICANO

Gia Coppola è la nipote di Sofia e di Roman, nel senso che è la figlia di un altro figlio di Francis Ford, morto prima che lei fosse nata. Ma va beh, era solo per dare un contesto di “famiglia” a chi si chiedesse da dove esce questo nuovo talento che ha sfornato un film così particolare come The Last Showgirl, tutto girato con lenti anamorfiche e con un amore sfrenato per le sfocature, i controluce e le aberrazioni ottiche di vario genere

In The Last Showgirl protagonista assoluta è Pamela Anderson in uno di quei ruoli che di solito si definisce “della vita” in cui capiamo finalmente quanto il suo talento avrebbe potuto essere sfruttato anche in passato. Shelly (Anderson) è una ballerina di fila nello spettacolo di Las Vegas “Le Dazzle Razzle”, uno di quegli show di varietà tutto piume e lustrini che fanno tanto anni ’70-’80 e che infatti è sulla via della chiusura.

Intorno a lei si muovono le colleghe più giovani (come Kiernan Shipka) e quelle ormai in pensione (c’è una monumentale Jamie Lee Curtis in pieno stile white trash che non avrebbe sfigurato in un vecchio film di John Waters). C’è anche un dolente direttore di scena interpretato da Dave Bautista, uno che a me sorprende sempre per quanto è bravo.

Ovviamente la chiusura dello spettacolo mette in crisi le già precarie finanze di Shelly che è anche alle prese con una figlia che non vede più e con la quale non c’è l’intimità che lei vorrebbe. Il sogno americano, qui declinato nell’ambiente “bello fuori e squallido dentro” dello show business, viene sviscerato nelle sue luci e nelle sue ombre. A 57 anni Shelly deve fare altri provini e viene umiliata da un regista pragmatico interpretato da Jason Schwartzman (hey, è il cugino di Gia!).

Finale onirico e dolceamaro con canzone inedita di Miley Cyrus e Lykke Li, ma la cosa migliore è l’utilizzo di Total Eclipse of the Heart in una scena di montaggio alternato tra Curtis e Anderson che vale come epitaffio sui sogni di gloria di chi è cresciuto nell’edonismo reaganiano e nel 2025 si guarda intorno e vede solo macerie.

OPUS, A24 VA IN CONFUSIONE

Odio doverlo dire di un film A24, ma Opus è una cagata coi fiocchi. O sono io che non ho capito la sottile arte di mescolare un po’ di Get Out, un po’ di Blink Twice, un po’ di Midsommar e tirar fuori un film che vorrebbe essere un inquietante horror e che invece è un noioso e prevedibile thriller da cestone delle offerte.

Regista alle prime armi (ma ex giornalista di GQ), Mark Anthony Green ha a disposizione un gigantesco John Malkovich nel ruolo di Alfred Moretti (LOL) divo del pop anni ’90 che è disposto ad andare in modalità full-Nicolas Cage tra urletti, movenze sexy e recitazione sopra le righe e una bravissima Ayo Edibiri nel ruolo della giornalista alle prime armi Ariel Ecton, unica outsider tra gli invitati alla straordinaria presentazione del nuovo album di Moretti dopo un silenzio ventennale. 

Quello che gli manca è la storia, che si sfilaccia tra un’inquadratura e l’altra. Malkovich e Edibiri sono ai poli opposti della recitazione (sopra le righe lui, in sottrazione lei), tutto appare assurdo e posticcio, c’è un mistero ma manca la suspence, quando c’è il primo morto ammazzato nessuno si scompone più di tanto.

C’è una sequenza esaltante e cringe al tempo stesso in cui Moretti fa ascoltare la sua nuova hit ai presenti, poi succedono un altro paio di cose allarmanti, Ariel vorrebbe fuggire ma… no, dai, prima vieni a vedere uno spettacolo di marionette creepy a forma di roditori decomposti che mettono in scena la storia di Billie Holiday (!!!). Da lì in poi, complice una poltrona a sacco che non è quello che sembra, parte la locura horror che però è costantemente depotenziata.

Non ho menzionato il fatto che gli invitati alla presentazione del disco di Moretti si trovano nella sua tenuta che è abitata / gestita da una sorta di setta che venera Moretti come una divinità e che fa cose un po’ alla Manson, un po’ alla Jonestown, un po’ alla fiera dell’artigianato di Verbania

C’è un finale messo lì apposta per far dire “minchia ma allora non avevo capito nulla ed era tutto predisposto in un certo modo diabolico fin dall’inizio”, ma anche questa rivelazione è confusa e convince poco. Spiace, perché Opus poteva essere molto più incisivo se non si fosse perso tra gigioneria e indecisione.

QUEER O DEL DESIDERIO OMOSESSUALE

Sigarette, tequila, sudore, la pistola e la macchina da scrivere (che qui non prende vita), scolopendre e lenzuola macchiate, eroina, siringhe, passaporti e camicie stazzonate. All Apologies rifatta da Sinead O’Connor: con questo straniamento in colonna sonora (che continua nel resto del film con pezzi come Come As You Are dei Nirvana, Musicology di Prince, Leave Me Alone dei New Order o – addirittura – due pezzi dei Verdena) inizia Queer di Luca Guadagnino, uno dei suoi film più sfidanti. E non ho ancora detto nulla a proposito di Daniel Craig

Queer di Burroughs è una novella minore dell’autore, che Guadagnino usa per uno dei suoi ragionamenti filmici sul desiderio maschile e racconta un periodo della vita di William Lee (classico alter ego di Burroughs) in cui il protagonista non fa altro che bere, fumare e cercare maschi da scopare in Messico, circondato da una fauna locale bizzarra capitanata dal gran visir di tutti i gay espatriati di Jason Schwarzmann (sorprendente). Quando incontra Drew, un giovane bellissimo e ambiguo (non si sa se sia veramente queer, questo è uno dei temi chiave), si accende il desiderio di conquista. 

In una struttura a tre atti – il primo statico nei bar e nelle stanze d’albergo in Messico, punteggiato da scene di sesso molto sudate, il secondo in viaggio nell’America latina sempre più devastato dall’eroina e il terzo nella giungla dove William e Drew cercano una dottoressa che somministri loro l’ayahuasca – Queer cerca di concentrare tutti i temi cari a Burroughs filtrati dalla sensibilità estetica di Guadagnino

Il che a volte è molto straniante, come quando appunto entrano scelte come quella di Prince, formalmente molto riuscita ma che ti fanno uscire giocoforza dal coinvolgimento o come quando noti (e lo noti sempre) un’attenzione alla forma che forse mal si sposa con i contenuti di Burroughs che uno si aspetta sempre grezzi, sporchi – meno curati, in una parola. Ma a questo proposito va detto che il polo magnetico di tutto il film è Daniel Craig che si offre senza filtri e senza freni come centro assoluto di attrazione e nello stesso tempo come portatore di quel desiderio di cui sopra.

Non ricordo più dove ho letto che il desiderio omosessuale tende a confondere il “desidero avere lui” con il “desidero essere lui”: in Queer questa cosa è molto evidente anche nella scena psichedelica dell’assunzione dell’ayahuasca che scivola nel body horror per poi sublimare l’intimità tanto cercata tra William e Drew nella fusione vera e propria dei due corpi.

Queer è un film anche stancante, che però è difficilmente ignorabile. Sui titoli di coda, Trent Reznor e Atticus Ross tirano fuori il pezzone featuring Caetano Veloso. Niente, volevo dirvelo.