BRIDGET JONES 24 ANNI DOPO

Vedere a 24 anni di distanza un nuovo Bridget Jones (conto 24 anni dal primo, perché il secondo e il terzo… meh) è abbastanza straniante. Però, se sei fan del personaggio, piacevole. In questo film-fiume (quasi due ore di faccette e goffaggini!) Renée Zellweger si reimmerge nel personaggio della sua vita come se non avesse mai fatto altro e questo è quantomeno… confortante. Ci sono tutti i comprimari storici che fanno la loro bella apparizione per scaldare i cuori del pubblico (soprattutto il Daniel Cleaver di Hugh Grant, chevvelodicoaffà) e c’è una nuova intrigante situazione.

Mark Darcy è deceduto (niente paura, appare ogni tanto in forma fantasmatica) e Bridget è una mamma single che deve tirar su due bambini (il più grande è quello nato in BJ3). Tra la frenesia della routine quotidiana, il lasciarsi andare e l’ovvia mancanza di partner sessuali, Bridget si barcamena tra il ritorno al lavoro (suggerito dalla strepitosa ginecologa acida di Emma Thompson) e il ritorno al dating su Tinder, dove conosce il toy boy del titolo, Leo Woodall.

Ma intorno a Bridget e alla sua famiglia gravita anche il professore del figlio (Chiwetel Ejofor) che sulle prime sembra scostante e antipatico, ma ovviamente scatterà la scintilla – ottima la parte in cui Bridget accompagna la classe del figlio in gita nei boschi con lo scontroso professore. Insomma, una dinamica Cleaver/Darcy aggiornata a una Bridget più anziana, più saggia ma sempre gloriosamente imbranata.

C’è una spruzzata di About a Boy nella sottotrama del figlio e una piccola occasione mancata nell’introduzione del personaggio di Isla Fischer che poi non si vede più per il resto del film. Tutto sommato non male, e forse non meritava di avere una distribuzione (in USA) solo in streaming.

THE ELECTRIC STATE: OCCASIONE SPRECATA

È difficile dire qualcosa di positivo su The Electric State dei fratelli Russo, il pompatissimo (di soldi) film Netflix che doveva essere il culmine dell’offerta 2025. Ci provo. The Electric State è tratto da un libro illustrato bellissimo di Simon Stålenhag che da noi è uscito nella collana Oscar Ink e ci prova veramente tantissimo a restituire quelle atmosfere a metà tra sogno e retrofuturismo.

Il problema poi è che ci troviamo di fronte a Millie Bobby Brown e Chris Pratt, che sono – come dire – un po’ fuori contesto. Capisco l’esigenza di squadernare un parterre di star più o meno affiliate a Netflix (ci sono anche Giancarlo Esposito, Stanley Tucci e Ke Huy Quan). Ma c’è la sensazione che tutti i cameo siano sprecati e che i due interpreti principali siano totalmente fuori posto.

Azzardo: potrebbe essere un problema di scrittura, la questione di aver voluto spingere un po’ troppo sul pedale dell’action e degli effetti speciali per creare uno di quei buoni vecchi film di avventura per famiglie: ci sta. Ma il risultato è spiazzante, altalenante e appunto disequilibrato.

Si salvano giusto alcune interpretazioni “robotiche” (con le voci di Woody Harrelson, Alan Tudyk, Hank Azaria, Brian Cox) e il ragazzino che purtroppo vediamo solo all’inizio e alla fine, Woody Norman, già protagonista eccezionale di C’Mon C’Mon, nel ruolo di Cristopher.

Ah, la trama: in una ipotetica guerra tra umani e robot svolta negli anni ’90, gli umani hanno vinto e i robot vivono in una riserva isolata dal mondo. Intanto Millie Bobby Brown resta orfana e perde anche il fratello geniale Cristopher. Un giorno le si presenta un robot che sembra aver introiettato la coscienza del fratello. Seguono avventure pazze in compagnia di Chris Pratt per sgominare la multinazionale cattiva e salvare il fratello.

Finale dolceamaro aperto, ma grandissime perplessità.

PADDINGTON VS LE SUORE

C’è stato un tempo in cui Paddington e/o Paddington 2 erano entrati nella classifica dei 250 migliori film di IMDB al secondo posto, tipo. O forse me lo sono sognato. Comunque è fuor di dubbio che i film della serie di Paddington sono bellissimi e nulla hanno da invidiare ai valori produttivi e mitopoietici della serie di Harry Potter, per citare un’altra IP molto british. I film di Paddington sono splendidamente umoristici, ottimamente interpretati dai migliori attori britannici in circolazione e Ben Wishaw rende l’orsetto eponimo assolutamente “vivo”.

Paddington in Perù mostra un pelo di stanchezza nel “non saper più dove andare a parare” e forse anche nel cambio di regia (qui è Dougal Wilson). La famiglia Brown è un po’ persa, ognuno si fa i cazzi suoi, non c’è più quel feeling da “tutti sullo stesso divano”, ma prontamente arriva una lettera dalla Casa di riposo per Orsi in Perù, dove vive la zia Lucy che ha tanta nostalgia di Paddington.

Ovviamente tutta la famiglia parte per un viaggio esilarante in Perù e nella foresta amazzonica, accompagnati da due personaggi potenti come la madre superiora a capo della casa di riposo (Olivia Colman) e il capitano della barca che fa le crociere sul Rio delle Amazzoni (Antonio Banderas), entrambi un po’ squinternati e soprattutto estremamente sospetti (lascio a voi immaginare chi dei due è più sospetto alla fine).

Il macguffin qui è che la zia Lucy sembra scomparsa e a quanto pare questo ha a che fare 1) con le origini stesse di Paddington e 2) con la mitica pista verso Eldorado tanto bramata dai conquistadores spagnoli (di cui ovviamente Banderas è un diretto discendente). Che altro dire: la Colman si porta un po’ tutto il film sulle spalle, quando appare lei è come se ci fosse una sferzata di energia folle. Il lieto fine è d’obbligo e non è scontatissimo. Di Paddington non se ne ha mai abbastanza.