#CAMEREDICOMMERCIO

#cameredicommercioHo riflettuto a lungo sull’opportunità di scrivere questo post. Si tratta di una riflessione assolutamente personale che però si inscrive in una protesta (meglio: uno “stato di agitazione”) che è proprio di tutto il personale delle Camere di commercio, che sarebbe poi il mio posto di lavoro da 11 anni, nella capitale sabauda.

Questa estate, personalmente parlando, è stata già ricca di piccoli e medi problemi familiari di vario genere. Poi, come sempre accade, piove sul bagnato. Ecco quindi arrivare Renzi, Madia e la loro scriteriata riforma della PA. Scriteriata, cioè senza un criterio – o meglio senza uno studio, un approfondimento, una valutazione corretta, un dialogo costruttivo. Ma tant’è. Nessuno – io credo – si aspettava niente più di questo da un governo del genere. I tagli lineari ci sono sempre stati e l’attuale ministro della Pubblica Amministrazione (complice probabilmente l’incompetenza sui temi trattati e la scarsità di “tecnici” a consigliarla) non fa nulla di nuovo.

Dopo anni in cui il brunettismo ha fatto alla pubblica amministrazione quello che il berlusconismo ha fatto al paese, ci troviamo in una sorta di “deserto civico” dove anche quel poco di res publica che continua a funzionare, magari anche bene, viene costantemente e pavlovianamente irrisa e denigrata dal cittadino comune. Lo sento tutti i giorni: la banalità del “tutti a casa” riferito genericamente alla classe politica si traduce in un “tutta burocrazia senza senso”, riferito a qualsiasi ente pubblico. L’ente pubblico che funziona ha difficoltà a comunicare sé stesso e le sue buone pratiche al di là della cerchia ristretta degli operatori del settore. Diventa un cane che si morde la coda, una spirale negativa senza uscita: più cerchi di comunicare la tua efficienza, più il cittadino comune ti sputa in faccia l’astio di anni di paludi burocratiche, magari irritato per l’ennesima attesa a uno sportello. A volte riesci a “bucare” il muro di gomma, e a diventare veramente un caso di successo. Può capitare: i tuoi utenti sono soddisfatti e parlano bene di te.

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FAVOLE IN ASCENSORE

Probabilmente vi ho già parlato del mio vicino, Gandalf il Grigio. Se non l’ho fatto, il suo nome esprime comunque perfettamente il tipo. Si tratta del mio dirimpettaio ultracentenario con capelli e barba lunghissimi dotato di bastone nodoso più alto di lui, quello che quando esce di casa ti aspetti sempre un piccolo spettacolo di fuochi d’artificio nella tromba delle scale. O dell’altra mia vicina, la Malvagia Strega dell’Ovest (per gli amici Elphaba): la dirimpettaia di prima, inquietante e rude, che da quando è nato Simone si è trasformata in una versione appena più contenuta della strega di Hansel e Gretel, per il modo in cui lo tasta continuamente saggiandone le ciccette con aria golosa.

L’aspetto, diciamo così, magico del mio condominio è stato ormai eroso pian piano dalle nuove famiglie che hanno acquistato e ristrutturato gli alloggi. Famiglie ordinarie, senza alcuna caratteristica che le facesse rientrare a pieno titolo nel cast di Once Upon a Time. Questo fino a pochi mesi fa, quando è entrata in scena Grimilde, la regina cattiva del sesto piano.

Grimilde ci tiene a far sapere che lei dice pane al pane e vino al vino, e se deve sputarti in faccia lo fa senza nessun problema. Grimilde non saluta nessuno, o se saluta dice “buondì” (e sapete cosa penso io di quelli che dicono buondì). Grimilde va in giro mattino e sera, estate e inverno con un paio di occhiali a specchio che manco Marion Cobretti. Grimilde ha un marito succube, che lei disprezza e di cui parla male con chiunque. Detto marito viene assegnato a tutte le corvée più umilianti non appena torna dal suo impiego in banca (Grimilde lavora a casa come “progettista”). Grimilde ha anche una figlia che vive all’ombra di cotanta madre e ne è (giustamente) terrorizzata.

Grimilde, insomma, riporta il tasso fiabesco dello stabile al 110%, soprattutto da quando ha scoperto un’affinità particolare con i suoi vicini del piano di sotto. Cioè noi.
Io, devo dire, catalizzo poco l’attenzione dei vicini. Temo pensino che io sia una sorta di pazzo tranquillo, pronto ad avvelenarli e/o a scioglierli nell’acido fluoridrico da un momento all’altro. Ma Stefi, lei attira gli sciroccati come il miele le api. L’arrivo di Simone, poi,  ha generato un campo di forza che attira naturalmente i vicini di una certa età sul pianerottolo di casa. A volte, di notte, mi sembra di sentirli raspare sul legno della porta d’ingresso… Ma sto divagando.

Grimilde sostiene che ci sia un’affinità elettiva tra lei e Stefi. La qual cosa le consente di spedire la figlia nerd e sovrappeso da noi per levarsela dalle palle il tempo giusto per riuscire a “progettare” qualcosa. In tali occasioni veniamo a conoscenza di cose di Grimilde che la rendono ai nostri occhi sempre più Grimilde. Ecco alcune frasi chiave della piccola (che per coerenza chiamerò Biancaneve anche se a onor del vero non la definirei proprio “la più bella del reame”)…

“Ciao, la mamma mi ha detto che posso stare qua quanto voglio… Posso tenervi compagnia?”
“Posso fare merenda? Ma con qualcosa di leggero, perché la mamma vuole che stia a dieta
“Le mie compagne non mi invitano alle feste perché mia madre sta antipatica a tutti
“Mi viene da cantare una canzone: posso? La mamma non vuole che canti…”

Biancaneve è piuttosto disarmante, come potete immaginare. Mi ricorda un po’ Little Miss Sunshine, un po’ una versione femminile del ragazzino di About a Boy.
L’ultima volta è arrivata con il cuore di un cerv… ehm, con un barattolo di marmellata ai frutti di bosco da parte di Grimilde, immagino per ripagarci del disturbo. Ho provato a spalmarla sul pane della colazione, ma devo ammettere che ero un po’ titubante: si sa che queste regine cattive non hanno un buon rapporto con la frutta.

Ora l’unico punto in discussione resta: come fare a risultare anche noi, come tutto il resto del palazzo, antipatici a Grimilde. Ma soprattutto: non sarà che se poi passiamo dall’altra parte della barricata diventa anche peggio? Ho il sospetto di essere finito in una situazione degna del test della Kobayashi Maru. Ci sarà un modo per riprogrammare lo scenario?

 

FUORI FUOCO

Fuori fuocoEcco. La testa cade di lato, il respiro si fa più pesante. Il libro si apre e si poggia sullo stomaco, come una coperta di parole. È l’effetto della poltrona Poang dell’Ikea dopo pranzo. Favorisce naturalmente il sopore della digestione. Ma durante questo tipo di sonno meraviglioso, tutto resta vigile, anche se solo allo 0,01%.

I sensi continuano ad essere stimolati, dolcemente. La mente continua a lavorare, per conto suo, stupita e contenta di non avere nessuna coscienza a farle la guardia a dirle cosa fare, cosa pensare, come reagire. Una lieve brezza sfiora la pelle, arriva dalla finestra con i serramenti quasi del tutto abbassati, per tenere fuori il caldo ma non l’aria. La gatta dorme anche lei, con fusa sommesse e sospiri felini. Da fuori le macchine passano sul cavalcavia, un gruppo di bambini gioca nei giardini poco lontani, qualcuno suona un clacson ma è come se tutto fosse al di là delle nuvole.

Pochi metri più in là, una donna respira, persa in chissà quali sogni, mentre i capelli le si appiccicano al viso e la sua amata e odiata pancia sobbalza di quando in quando sollecitata dagli esercizi di stretching della creatura che ospita, un frutto segreto che vedrà la luce tra poche settimane. Anche per lui, come per me adesso, la realtà arriva filtrata da una bolla di liquido. Persino i consueti beep degli smartphone che tendono a illuminarsi o a vibrare punteggiando la giornata con finestre più o meno gradite, più o meno utili, sulle vite degli altri non hanno alcun effetto sulla mia immersione.

Nuoto in uno stato di incoscienza liquida, osservo la mia mente che – frenetica – continua a lavorare anche mentre dormo: sta scrivendo qualcosa di molto complesso, molto ampolloso. Percepisco i suoi pensieri come fossero parole vergate a mano con calligrafia antica su uno schermo posto dietro i miei occhi chiusi. La lascio fare e mi abbandono a un sorriso interiore. Ogni tanto quasi riaffioro. Quasi. Socchiudo le palpebre, una frazione di secondo fuori fuoco, il tempo di percepire una cifra digitale cambiare sull’orologio a parete. Ma non è ancora ora.

Le braccia formicolano (la mia posizione per addormentarmi prevede i polsi ammanettati, legati o comunque immobilizzati in qualche modo in alto dietro la testa). Le dita si sfiorano tra loro, io continuo a nuotare nelle profondità dei miei pensieri. Montagne di parole non dette, grotte rilucenti di immagini affascinanti, seni, cosce, labbra. Non mi soffermo su nessuno dei sogni che si affacciano dietro le quinte del lavoro della mente, per quanto piacevoli: non sono in uno stato di sonno profondo, e una parte di me lo sa.

Sa che bisogna svegliarsi, ma si abbandona ancora al flusso del sangue, dal cuore agli arti e ritorno. Le braccia si muovono da sole, si stiracchiano, le dita si scrocchiano tra loro. Inspiro profondamente, riporto la testa sul suo asse. Esito ancora ad aprire gli occhi, ma ormai ho ripreso il controllo. Le ciglia sono incatenate tra loro, si separano di malavoglia. La lingua passa sulle labbra secche. Voglia di bere. La realtà è tornata, col suo sapore amaro in fondo alla gola.

Ma per una ventina di minuti l’ho fregata.