NOTIZIE CHE NON LO ERANO (CIT.)

Prendo a prestito il titolo di un noto libro di qualche anno fa di Luca Sofri (peraltro direttore del Post), per raccontarvi una storia esemplare che ha molto a che fare con il tema e che a mio avviso spiega molto della comunicazione, della società e del giornalismo nel 2020. È una storia vera, è capitata a me nelle ultime 24 ore, potete farci quello che volete, secondo me è istruttiva.

L’ANTEFATTO

Il 3 novembre, alle 22 circa, il vostro affezionato social media coso di quartiere ha l’impressione che un UFO stia atterrando fuori dalle finestre di casa. Tutta la stanza pulsa di luci lampeggianti blu (e sto al quinto piano), perciò interrompo l’ennesima replica di Buffy The Vampire Slayer, salto giù dal divano e vado sul balcone – capitemi, sto in quarantena da dodici giorni, l’unica occasione di vedere qualcosa che non siano le mie tre camere e cucina è affacciarmi sulla strada. Quando guardo giù, l’immagine mi colpisce: una fila di dieci ambulanze sta passando sotto casa a lampeggianti accesi ma a sirene spente. Atmosfera surreale, luci blu ovunque, silenzio. Ho il cellulare in mano, scatto una foto. La riguardo, ha qualcosa di ipnotico, ma soprattutto mi emoziona, mi sembra significativa. La posto su Instagram accompagnata da uno dei miei consueti commenti inutili, un po’ per ricordarmela, un po’ per condividere con i miei amici “guarda che roba assurda che è passata sotto casa mia stasera” (lo faccio tutti gli anni anche con l’orda di Babbi Natale biker che mi passa rombando sotto casa per andare ad augurare buone feste ai bambini del Regina Margherita, l’ospedale pediatrico di Torino). Attenzione a questo dettaglio che torna utile dopo: per motivi assolutamente personali ed espressivi, applico alla foto su Instagram un filtro, una modifica. Si tratta del tilt & shift, una tecnica fotografica che consiste nello sfocare quasi tutto e lasciare a fuoco solo un elemento dell’immagine (in questo caso le ambulanze incolonnate). Per me, come ho detto esplicitamente nel post, un modo di “prendere le distanze” da un’immagine che mi ha colpito emotivamente rendendola simile a un diorama con le macchinine giocattolo – è l’effetto che dà questa tecnica, soprattutto nelle foto prese dall’alto. Poi vado a dormire.

IL FATTO

Alle 8 del mattino del 4 novembre, la foto ha qualche like su Instagram (dove ho un profilo “aperto”) e qualcuno su Facebook (dove ho un profilo riservato esclusivamente agli “amici”). Poco più tardi vengo contattato da un amico giornalista, Vittorio Pasteris, che mi chiede se può usare la foto per illustrare un articolo della sua testata, Quotidiano Piemontese. Mi dice che la trova una foto molto significativa e mi chiede ora e luogo precisi dello scatto. D’accordo, dico, non c’è nulla di male. Da questo punto in avanti, ora dopo ora, la foto diventa virale. Alcune testate la riprendono così com’è, altre mi contattano per avere qualche delucidazione in più che peraltro io non posso dare, non essendo un operatore sanitario e non sapendo assolutamente cosa potevano farci dieci ambulanze in fila sotto casa (per me, anima bella, potevano essere ambulanze vuote che andavano in un immaginario deposito di ambulanze che so, a sanificarsi). I like e soprattutto i commenti cominciano a fioccare, sul post originario di Instagram ma soprattutto sui post social delle testate che hanno ricondiviso la “notizia che non lo era” (tra le altre Fanpage, Huffington Post, Messaggero, Stampa, Repubblica, Corriere e alle 19 persino il TG3 nazionale). La foto è diventata “il simbolo della seconda ondata del Covid-19” (parole non mie, ovviamente).

VALORI COMPOSITIVI E STORYTELLING

In questo paragrafo mi prendo un attimo per spiegarvi che in fatto di politiche sanitarie sono assolutamente un signor nessuno, ma in fatto di comunicazione visiva qualche credenziale ce l’ho. Anche se quella foto sta buttata lì tra un selfie brutto, una foto col bambino e l’occasionale food porn dedicato agli impiattamenti dei ristoranti che a volte frequento, questo non vuol dire che non sia stata – nel giro di pochi secondi – studiata e inquadrata in un certo modo. In origine c’è un taglio verticale, la fila di ambulanze diretta in prospettiva verso un punto sul margine sinistro dell’immagine, il parcheggio sotto casa, il palazzo di fronte. Per enfatizzare il senso di direzione in diagonale opero un taglio quadrato (ma anche perché tradizionalmente su Instagram le foto vengono caricate così) e per focalizzare l’attenzione sulle ambulanze ma anche per “mettere un filtro” tra la scena reale e chi guarda applico il tilt & shift di cui ho accennato. Il filtro in questo caso è l’espressione dello stato d’animo del fotografo, né più né meno. A voler paragonare ‘nu strunz co ‘nu babà, come si dice a Napoli, è lo stesso principio per cui Van Gogh dipinge la luce delle stelle come se fossero spirali e vortici inquietanti. La foto così trattata, sono il primo a rendermene conto, assume una maggiore valenza narrativa. Il caso vuole che la foto sia postata in un tempo (picco di seconda ondata del virus) e un luogo (il capoluogo del Piemonte, regione dichiarata quello stesso giorno “zona rossa”) favorevoli alla sua massima diffusione. Ed ecco il motivo per cui piace ai giornali. Racconta in modo immediato la storia di un territorio in sofferenza, di una popolazione “alla finestra”, di una incertezza che trascolora nell’irrealtà.

LA FONTE, IL GIORNALISTA, IL PUBBLICO, IL FATTO, LA SENSAZIONE

Veniamo dunque alle varie condivisioni della foto sui media tradizionali (e sulle pagine social dei suddetti media). C’è una premessa da fare, che riguarda il “mondo ideale iperuranio” del giornalismo italiano. Nel mondo ideale esiste il giornalista, esistono le sue fonti ed esiste il pubblico. Nel mondo ideale il giornalista è necessario, per presentare le notizie che raccoglie dalle fonti al pubblico dopo averle analizzate, verificate, confrontate, contestualizzate. Cosa c’entra tutto ciò con una foto, direte. Ci arrivo. La giornata di oggi, ricca di rilanci, permessi chiesti (o non chiesti), menzioni, riproposizioni, mi ha insegnato qualcosa anche sul complesso problema delle fonti – uno dei nodi cruciali della professione del giornalista, categoria alla quale spesso mi vergogno ma a volte mi pregio di appartenere. Seguite il discorso: in questo caso io, con la mia foto su Instagram, sono la fonte. I giornalisti delle varie testate mi contattano e propongono la “notizia” al loro pubblico. Solo che… non c’è una vera e propria notizia. C’è una foto in un feed personale, evocativa, probabilmente simbolica, accompagnata da qualche riga insensata scritta dal fotografo in preda a un attacco d’ansia. In queste righe insensate, il fotografo peraltro si chiede “chissà cosa ci fanno le ambulanze incolonnate a quest’ora… forse vanno in un deposito?”. Capirete che in questo caso la fonte non è una “persona informata sui fatti”, ma è semplicemente una “persona sul posto”. Tanto basta, però, per voler pubblicare un pezzo. Un altro problema relativo alle fonti è che le fonti… vanno citate. Sempre. A meno che non chiedano espressamente di rimanere anonime (cosa che forse avrei dovuto fare, ma ne parliamo nel paragrafo successivo). Vediamo un attimo come si è svolta la giornata on line. Mentre io facevo le mie call su Teams, preparavo storyboard per lavoro e impazzivo a incastrare insieme piani editoriali digitali, Quotidiano Piemontese pubblica per primo un pezzo. Il pezzo sostanzialmente dice che io ho pubblicato una foto su Instagram e che questa foto potrebbe “entrare nella storia della pandemia”. Fonte citata, addirittura post integrale riportato, ma la notizia dov’è? Probabilmente per Vittorio Pasteris, che mi ha chiesto di poter usare la foto, lo scoop sta semplicemente nel fatto di aver lanciato una foto potenzialmente acchiappaclick. E infatti. Seguono a ruota Fanpage (che mi ha chiesto il permesso) e Huffington Post (che non me lo ha chiesto ma comunque mi cita correttamente). Entrambe le testate riportano integralmente il mio post originale – e meno male perché prima della fine della giornata ho dovuto integrarlo con alcune considerazioni oggettive sulla destinazione di quelle ambulanze – e agganciano la foto “emotiva” a una notizia vera, quella della dichiarazione del Piemonte come “zona rossa”. Purtroppo però sia Fanpage che HuffPost, nel tentativo di dire qualcosa in più commettono un errore molto comune: riportano e ribadiscono pedestremente quello che dice la fonte, senza fare il lavoro di analisi, confronto e contestualizzazione che sarebbe opportuno fare. Ormai è una decina d’anni che si parla di disintermediazione, di fonti che parlano direttamente al pubblico, di un ruolo del giornalista che non ha più senso, non serve. Ecco, lasciatemi dire: serve. Serve più che mai. Questo mio è un esempio minuscolo, ma rappresentativo. Lo ribadisco, io sono un signor nessuno: cosa posso saperne dei percorsi delle ambulanze, da dove venivano, dove andavano? Niente, perché sono solo uno qualunque che si è affacciato alla finestra e ha fatto una foto. Si prosegue con Il Messaggero e Il Mattino, poi con Yahoo News, Blitz Quotidiano, Notizie.it. Ormai la foto “cammina” da sola. Nessuna di queste testate ha chiesto direttamente un permesso a me, ma tant’è, il profilo Instagram è pubblico, e tutti citano correttamente la fonte. Queste testate cominciano a parlare di “immagine simbolo della seconda ondata” e di “foto che ha fatto il giro del web”, legando poi l’immagine a un trafiletto sulla sofferenza degli ospedali piemontesi (ma anche laziali, campani, e via dicendo). Nel pomeriggio è la volta di TGCom24 (una galleria fotografica senza commento, ma comunque hanno citato la fonte), La Stampa e Radio Deejay, che condividendo sui loro profili Facebook danno la botta finale di viralità. La Stampa non cita nemmeno la fonte, secondo quella prassi ormai consolidata per cui prendi una foto da un profilo social perché tanto è Internet quindi è di tutti. A questo punto non resta che passare la foto (sempre senza citare la fonte) sul TG3 nazionale come nota di colore e il gioco è fatto.
Dunque, solo esperienze negative? No. Cristina Palazzo su La Repubblica e soprattutto Lorenza Castagneri sul Corriere fanno un lavoro diverso. Mi chiedono, scavano nella melma, confrontano, capiscono. E al tempo stesso anche io, grazie ad alcuni commenti illuminanti, apprendo il fatto (le ambulanze andavano dall’ospedale Mauriziano ormai in difficoltà al nuovo centro Covid dell’ospedale di Tortona) che prima, semplicemente, non potevo sapere. Repubblica e Corriere citano la fonte ma non si limitano a “metterle un microfono davanti”. Non citano  integralmente il testo del mio post originale (meglio così, dato che era semplicemente fuffa), ma lo contestualizzano spiegando che sono le impressioni di un osservatore comune, e arricchiscono la notizia con informazioni di prima mano prese dagli ospedali coinvolti. Se avete capito dove volevo andare a parare, si tratta di modelli di giornalismo diversi, che però suscitano tutti, sempre, la stessa reazione(*).

(*) Aggiornamenti del 5 novembre: La Stampa non ha citato la fonte in un estemporaneo post su Facebook di ieri, ma fortunatamente si preoccupa di farlo nel suo articolo di oggi dedicato alla sofferenza degli ospedali piemontesi, sia su web che su carta. Il tema è pertinente (le ambulanze in effetti facevano proprio un trasferimento di pazienti), ma la mia sensazione è che la foto verrà considerata abbastanza generica ed evocativa da poter illustrare un po’ tutte le questioni Covid-related. Per la cronaca, anche il TGR Piemonte oggi ha citato correttamente la fonte a differenza del TG3 nazionale di ieri, e così ha fatto anche “Ore 14”, il magazine di Rai2 in onda poco fa.

Sempre il 5 novembre entra in campo anche la redazione di Bufale.net che scrive un pezzo di debunking per chiarire (dopo avermi cortesemente interpellato) che la foto è vera e la notizia collegata alla foto anche, in barba alle migliaia di negazionisti che hanno pervicacemente sostenuto il contrario (vedi qui sotto).

Ultimo (spero) aggiornamento del 5 novembre: Cristina Palazzo di La Repubblica mi chiama e imbastisce un’intervista all’autore della foto “bombardato di insulti sui social” – ma io non mi lamento, eh. Ai troll non va dato da mangiare, si sa.

Aggiornamenti del 6 novembre: il cerchio si chiude, Il Post (anche loro mi hanno contattato prima) fa un approfondimento molto esaustivo dei suoi su tutta la questione ospedali in Piemonte. Intanto i negazionisti – spero – hanno voltato pagina.

SITUAZIONE DISPERATA MA NON SERIA

Sarà perché il Covid-19 è ormai un tema divisivo come l’immigrazione, il cambiamento climatico o i diritti di chi non è maschio-bianco-etero-cisgender-ricco-sano, sarà l’inquinamento dell’aria, saranno le radiazioni del 5G ma questa foto, in particolare nelle sue condivisioni sulle testate di cui sopra, ma anche sul mio post originario, ha scatenato i pazzi squinternati che popolano il web. Lo popolano da sempre, ma negli ultimi anni si sentono particolarmente titolati e – anzi – orgogliosi di poter rovesciare il loro odio su tutto e su tutti. A me scivolano assai, ne ho letti un po’ e mi guardo bene dal rispondere o entrare in conversazione con i negazionisti (per quanto mi piacerebbe capire il motivo per cui sono così assurdamente aggrappati a questa teoria cospirazionista del Covid che non esiste o se esiste ce lo hanno mandato per oscuri scopi complottari). Vorrei concludere con una lieta disamina delle più frequenti tipologie di commento perché ritengo che anche queste siano educative ed esemplari, oltre che molto divertenti.

    • Quelli che mi augurano la morte per Covid-19
    • Quelli che “basta con le foto di ambulanze volete terrorizzare la gente”
    • Quelli che – sinteticamente – vaffanculo
    • Quelli che “chi ti paga” o “sei solo un servo” (di chi? Di Soros, probabilmente)
    • Quelli che è un fotomontaggio
    • Quelli che non è un fotomontaggio ma non si capisce perché l’autore abbia sfocato la foto (basta leggere il post)
    • Quelli che battibeccano all’infinito tra loro a colpi di “SVEGLIAAAA!!!1!”, “Ma tu stai male”, “Ma dove vivi”, “Ma di che stiamo parlando”
    • Quelli che le ambulanze sono vuote, coglione
    • Quelli che le ambulanze sono piene, coglione (ma non di malati Covid)
    • Quelli che hai fatto la foto solo per diventare famosoLOL
    • Quelli che ma come cazzo scrivi ma sei Barbara D’Urso? (Sì.)
    • Quelli che ma lei come si permette di postare una foto così offendendo chi lavora nella sanità (!!!?)
    • Quelli che lei è stato un ingenuo a farsi strumentalizzare così dai giornali, la perdoniamo perché si vede che è in buona fede
    • Quelli che per due click in più lei diffonde fake news (ma non era una news…)
    • Quelli che avete rotto il cazzo con il Covid

E via dicendo, ne ho sicuramente dimenticato qualcuno bello, ma tant’è.
In tutto ciò quasi nessuno ha pensato di chiedermi lo scatto originale (che accompagna questo post)…

EPILOGO

Alla fine della fiera, dall’esperienza di oggi io traggo queste conclusioni.
Va bene, una foto può diventare virale, essere rappresentativa di un clima, tutto ciò che si vuole. Una foto accompagnata da sensazioni personali però non è “una notizia”. Può andare quando si dice “questa foto può diventare simbolica di una situazione”. Non va bene invece quando si costruisce a margine una narrazione imprecisa o totalmente demandata alla fonte (non informata) e che travisa o aggiunge dove non c’è nulla di particolare da dire. Quanto al delirio di commenti che la foto ha scatenato, direi che rappresentano molto bene la polarizzazione malata alla quale siamo arrivati dopo decenni di solletico alla pancia della gente.

Mi sono stupito di più di alcuni attestati di stima provenienti da sconosciuti.
A questo siamo arrivati.

DISCESE AGLI INFERI E SLITTAMENTI DI GENERE

Luglio col bene che gli voglio non sono riuscito a vedere molti film, son stato una settimana al mare, mi sono intrippato con Dark che è un casino senza senso e devo star dietro a un sito per capire le relazioni tra i personaggi e le linee temporali, ma tre chicche me le sono viste. Ve le appoggio qui in attesa di tempi migliori. Enjoy.

FAVOLACCE (Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2020)

Ve lo devo dire, nel caso non ci abbiate ancora fatto caso. Favolacce dei fratelli D’Innocenzo è un capolavoro totalmente fuori dagli schemi e lo trovate al momento anche su Prime (doveva uscire in sala ad Aprile, ma vabbè, comunque in molte sale lo trovate adesso). Mi aspettavo un film grottesco che calcasse la mano sulle meschinità della piccola borghesia romana. Ci ho trovato questo, certo, ma molto altro. Favolacce parte da un presupposto narrativo (il ritrovamento di un diario scritto da una bambina) che mette una doppia, tripla distanza tra lo spettatore e la materia narrata. E meno male, perché si tratta di roba incandescente. Ci sono quattro famiglie che stanno chi nelle villettine a schiera chi in baracche prefabbricate, c’è l’estate, la scuola (vanno a scuola d’estate? Non è chiaro). I tempi narrativi saltano qua e là, a un certo punto sembra sia messo in scena il classico ultimo giorno di scuola con gavettoni, poi no, ci sono altre scene in classe. Ci sono adulti gretti, meschini, mediocri, prevaricatori, violenti, incapaci di ascoltare. Ci sono bambini afasici, patologicamente timidi, inadatti, inadeguati, rassegnati, ma puri e poco concilianti. Inevitabile che i due mondi (quello squallido degli adulti e quello sur-reale dei bambini) si scontrino facendo delle vittime. Elio Germano che qui fa il padre di una delle famiglie in questione, ha due scene francamente terribili, in cui viene voglia di girarsi dall’altra parte, che contribuiscono a definirlo come il più grande attore italiano in giro oggi. Ileana D’Ambra, che non conoscevo, è un’altra grande sorpresa nel ruolo di sogno erotico di uno dei bambini protagonisti, vista attraverso gli occhi del suo desiderio e infine vista per quello che è veramente in una sequenza devastante e ulteriormente messa a distanza, raccontata attraverso un servizio di cronaca del telegiornale (ma è la stessa notizia dell’inizio del film? Il tempo è circolare). Tutto è girato con una inquietante insistenza sui primissimi piani, su dettagli apparentemente non-significanti, su ombre, carrelli a precedere. L’uso del fuori campo è magistrale (specialmente nella succitata scena di Germano), si ha sempre la sensazione che stia per esplodere la tragedia, e quando esplode si è ormai quasi sfiancati da questo continuo richiamo a Pasolini e Antonioni (i primi nomi italiani che mi sono venuti in mente) ma anche – per le atmosfere – a Yorgos Lanthimos. Folgorante la scelta di usare per le musiche un LP del ’72 di Egisto Macchi, “Città Notte” (era un membro del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, come Morricone): la musica concreta ed elettronica, mixata con gli effetti sonori del film rende la realtà di Favolacce ancora più sospesa. Quando sui titoli di coda risuona una assurda filastrocca che ripete in continuazione “non si può guarire, bisogna morire”, resti lì inebetito e capisci che hai visto un film, per dirla con Stanis La Rochelle, “molto poco italiano”. Non è per tutti, eh. Soprattutto astenersi quelli che non vogliono vedere brutte cose che capitano a bambini, io ve l’ho detto. Comunque uno dei film migliori dell’anno, so far. #recensioniflash

MATTHIAS AND MAXINE (Xavier Dolan, 2019)

Quanto ci piace Xavier Dolan da queste parti, non potete capire. Ho perso giusto il suo apparentemente terribile film americano ma per il resto li ho amati tutti moltissimo, con una predilezione speciale per Laurence Anyways e Tom à la Ferme. Del resto come si può non amare uno che a 19 anni scrive dirige monta e recita da dio tutto insieme? Uno che ha il senso innato dell’inquadratura e di come distillare da questa emozioni mai dette, ma solo suggerite visivamente? Uno che per finanziarsi i film accetta parti piccole ma incisive in film come It (parte 2)? Uno che – ho scoperto da pochissimo – nel natio Quebec ha doppiato Ron Weasley, Peeta Mellark e Jacob Black (LOL)… E quindi, spinto da una serie di post a tema direi prossemico di Dario Tomasi, ho visto anche questo Matthias e Maxime, e devo dire che siamo sempre a livelli molto alti. I due ragazzi del titolo fanno parte di una compagnia di amici di Montréal, dove si parla un mix orribile di francese poco comprensibile e inglese con accento terribile… esilarante. Anche il senso dell’umorismo dei ragazzi quebecois è qualcosa di interessante, con battute epiche come “Your mom is so fat her Patronus is a Burger King”. Comunque. A un certo punto per scommessa i due devono partecipare al corto amatoriale della sorella minore di un amico e devono baciarsi davanti alla telecamera. Il bacio non si vede, Dolan stacca prima. Ma è un bacio che mette in discussione tutto. Non lo definirei tanto un film gay, Dolan stesso lo ha definito semplicemente un film d’amore. I due amici etero scoprono da quel bacio che evidentemente li lega un sentimento più forte. Ma è un problema. Rende imbarazzanti le uscite in gruppo, si percepisce che c’è un non detto, ci sono dei giochi di sguardi misti a stacchi e – appunto – costruzioni delle inquadrature veramente magistrali. E comunque la passione a un certo punto esplode in maniera concitata e quasi dolorosa (su Tumblr ovviamente è strapieno di GIF che ripropongono l’unica scena di pomiciamentus interruptus del film) e poi la chiusura (“This is not us, we have to talk”). Ma Matthias e Maxime finisce che non parlano mai, Maxime deve partire per l’Australia, l’evidente sentimento che c’è è destinato a morire male… o forse no. Finale ambiguo e apertissimo come sempre, grandissima prova d’attore di Dolan che è bravo anche a sanguinare. E che ovviamente ha una mamma psicolabile e affetta da dipendenze che è la stessa di J’ai tuè ma mère. #recensioniflash

ANTRUM (David Amito / Michael Laicini, 2020)

Io ho finito luglio guardando ANTRUM, e così penso che voi dovreste iniziare agosto assaporando questo horror un po’ fuori dagli schemi, fuori di testa, fuori dalla norma, insomma… fuori. ANTRUM ha come sottotitolo “The deadliest film ever made”. Tipo The Ring, ma lì era un corto che lo vedevi e poi morivi. Tipo La fin absolue du monde (il film maledetto di Cigarette Burns di Carpenter), ma lì manco lo vedevi. ANTRUM invece è l’operazione di marketing horror più felice dai tempi del primo Blair Witch Project (ma fortunatamente senza la menata della camera a mano). ANTRUM parte come un documentario su ANTRUM, film del 1979 che tutti quelli che hanno avuto il (dis)piacere di vederlo o di selezionarlo per un festival cinematografico sono morti male. Tipo che uno si è tuffato in mare dopo aver visto ANTRUM ed è atterrato su un temibilissimo e velenosissimo PESCE PIETRA ed è morto tra atroci dolori. Ma sai che c’è, alla fine hanno ritrovato una copia di ANTRUM e te la fanno vedere, tutta, sì, proprio così, con un disclaimer a tempo che dice “Oh, vedi tu, se lo vuoi guardare Amazon Prime declina ogni responsabilità per gli effetti collaterali tipo diarrea, vomito, MORIRE MALE. Hai 30 secondi per spegnere il televisore o uscire dalla sala. 29, 28, 27…”. Poi inizia ANTRUM, il presunto film del ’79, e devo dire che visto a tarda notte qualche inquietudine la mette. Cioè intendiamoci, è una cazzata immane, c’è un bimbo triste perché hanno fatto l’iniezione letale al suo cane, lui chiede “ma è andato in paradiso vero?” e la mamma stronza senza limiti gli fa “no, è andato all’inferno perché era un cane cattivo” e allora il bimbo e la sorella maggiore decidono così sui due piedi che vanno nel bosco dove si dice che ci sia la porta dell’inferno a scavare di brutto finché non raggiungeranno l’inferno, proprio. Tipo per salvare l’anima del cane, ma in realtà non è importante. In realtà per tutto il film, sgranato, graffiato ed efficacemente girato “come se” fosse una roba underground bulgara anni ’70, appaiono cose, la pellicola è graffiata con simboli satanici, c’è una musica binaurale angosciante e fastidiosissima, fruscii, figure nere, inserti con gente che viene torturata male, cadaveri che affiorano, uno che si scopa un cervo morto, un giapponese che sembra che voglia fare la cacca nel bosco poi invece voleva fare harakiri ma quando si vede scoperto dai due bambini chiede scusa e scappa via, ma soprattutto LO SCOIATTOLO DEL DIMONIO (favorisco foto, per me è l’apparizione più bella del film). In questa discesa agli inferi sempre più psichedelica non si capisce bene se succedono cose o se in realtà è tutto nella testa dei due protagonisti. Si capisce che all’inizio lui è disturbato e la sorella è più a posto mentre verso la fine si invertono i ruoli e la sorella va fuori di testa. Ad ogni modo, non è che ci sia un vero e proprio finale. Ogni tanto, specialmente verso la fine, appare Astaroth che mormora cose incomprensibili e guarda male lo spettatore, io poi a un certo punto ho anche dormicchiato, tanto nei punti salienti c’è la stecca di sonoro che ti fa capire che succede qualcosa. Non so nemmeno dirvi se mi è piaciuto o no. Però ci sto ancora pensando. E, per la cronaca, non sono ancora morto. #recensioniflash

LISTAGEDDON

Come ogni fine anno sento, non so, come una sensazione di apocalisse incombente. Mi agito e non capisco cosa succeda, poi realizzo: è il mio lato ossessivo compulsivo e compilatore di liste che spinge per uscire. E dice “COOOOOSA siamo a metà dicembre e ancora non hai compilato la tua lista dei migliori filmdischilibrifumetti del 2019? Dovresti fare quella del DECENNIO, come fanno tutti i listaroli degni di questo nome!”.
E insomma, eccoci qua, è di nuovo quel periodo dell’anno.
Fuoco alle polveri, è il Listageddon!

FILM

Non è mai facile. Oddio, quest’anno è abbastanza facile, sono usciti diversi film pompati come capolavori che alla fine sì, insomma… sono dei capolavori. Però mi riservo sempre di vedere qualcosa che esce a fine anno che magari sbaraglia la lista. Comunque, quella ufficiale, in ordine rigorosamente sparso, è questa.

  • Parasite
    La distopia (nemmeno troppo distopica) di Bong Joon-Ho tra commedia, suspence hitchcockiana ed esplosioni di violenza. Movimenti nello spazio, sangue e pioggia.
  • Once Upon a Time in Hollywood
    La nostalgia canaglia secondo Tarantino, due film in uno: il primo elegiaco, il secondo frenetico e – per la seconda volta dopo Inglorious Basterds – il cinema riscrive la storia.
  • The Irishman
    Quando si dice “film testamento”, un fiume di immagini di 4 ore sulla vecchiaia, la morte, la fine delle illusioni, la solitudine. Ah, e ovviamente la mafia.
  • Us
    La lotta di classe secondo Jordan Peele, tra doppelgänger inquietanti e riflessioni sulla società americana del nuovo millennio.
  • The Dead don’t Die
    L’adorabile versione di Jarmusch sugli zombi, con un cast all star e il suo proverbiale humour deadpan.
  • The Favorite
    Sarebbe di fine 2018 ma sta in molte liste del 2019, il film di Lanthimos sulla regina Anna (Olivia Colman). Intrighi a corte, dominazione femminile e conigli.
  • Midsommar
    Seconda prova di Ari Aster, per me superata alla grande. Horror disturbante come pochi, molto psichedelico e senza scampo.
  • Border
    Fantasy urbano svedese (e già questa definizione basterebbe) tratto da Lindqvist che è anche una riflessione sul diverso e l’inclusione sociale.
  • Joker
    Vabbè, Joker.
  • Il primo Re
    Una sorpresona nell’asfittico panorama italiano. Matteo Rovere avrà sempre tutta la mia stima per questo film cupo, violento, atemporale, bastardo, e soprattutto protolatino.

Ci sono sempre poi i film che devo ancora vedere, mannaggia a me, e che sicuramente credo entrerebbero nella mia lista, come JoJo Rabbit, The Lighthouse o Under the Silver Lake. E poi c’è la lista guilty pleasures, il cui podio quest’anno è saldamente occupato da Six Underground, John Wick 3 Parabellum e Shazam!… il primo goduria cinematica di inseguimenti , il secondo di sparatorie, il terzo è il film di supereroi che ho gradito di più nell’ultimo anno. Ovviamente grande escluso The Rise of Skywalker che aspetterò di vedere in VO quanto prima, ma tanto più che un film quello è un evento epocale.

LIBRI

Nel 2019 ho letto più del solito, a volte abbandonando per disaffezione, più spesso divorando pagine sul Kindle (perché lo ammetto, non ho mai voluto cedere ma da un paio d’anni lo spazio in libreria, le occasioni per leggere e soprattutto la presbiopia mi hanno fatto prediligere il formato digitale). Ho letto con gusto anche un sacco di classici, ma qui vi metto i libri del 2019 che ho apprezzato di più.

  • Bianco
    Ellis al suo meglio, caustico ma vero in un saggio sulla società degli anni ’10 che segue la traccia dell’autobiografia.
  • Patria
    Il romanzo fiume di Aramburu che sulla carta non gli davo due lire e invece prende tantissimo (rapporti tra famiglie di assassini e vittime sullo sfondo dell’ETA).
  • Persone normali
    Opera seconda di Sally Rooney, storia di una relazione difficile (anche un po’ malsana) dalle superiori all’università e oltre. Scrittura chirurgica.
  • Sapiens. Da animali a dèi
    Vabbè dai, ho barato: il libro è del 2011 ma io l’ho letto solo quest’anno (nuova edizione: vale?). Il saggio che ho amato di più degli ultimi dieci anni, forse.
  • I testamenti
    Il seguito del Racconto dell’Ancella di Atwood. Tecnicamente devo ancora finirlo, ma direi comunque che è una bomba.
  • L’istituto
    L’ultimo King mi ha sorpreso per potenza narrativa e coinvolgimento emotivo. Ha capito anche lui che il filone “dodicenni con problemi (e poteri paranormali)” tira.
  • La paziente silenziosa
    Un thriller che appare convenzionale e invece parte con un intrigo psicanalitico e chiude con un twist finale alla sciamalàian che lo ha reso la perfetta lettura estiva.
  • Cat person
    La raccolta di racconti di Kristen Roupenian mi ha colpito assai e molte storie ti restano dentro anche dopo mesi. Un must.
  • L’assassinio del commendatore
    L’ultimo Murakami (in due volumi) ti trasporta in un gorgo di psichedelia, arte, mistero e giapponesità con il solito grande stile.
  • Cercami
    Il seguito di Chiamami col tuo nome, stavolta a due voci. Metà del libro dal punto di vista di Elio, metà dal punto di vista di suo padre. Curioso ed emozionante.

Avrei una paccata di roba ancora da leggere, di libri usciti nel 2019, ma vi metto qui quelli che mi paiono più appetibili: La misura del tempo di Gianrico Carofiglio, Faccio la mia cosa di Frankie Hi-Nrg, La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem, A tutto gas di Joe Hill, Lo stato dell’unione di Nick Hornby, Siamo riflessi di luce di Samuel Miller.

ALBUM

C’o’ volum’ d’e’ cuffiett’ a vint’ (come dice Liberato), la musica che mi ha accompagnato costantemente a piedi, in bici, in macchina, a casa, al lavoro, e anche in bagno è questa. Cioè ci sarebbe molto di più ma questi dieci sono gli album che ho ascoltato con più piacerone, stuck on repeat.

  • Ghosteen
    Se la gioca come album dell’anno, probabilmente il capolavoro di Nick Cave. Da ascoltare con religioso amore per passare attraverso la fase più profonda del lutto presi per mano da un artista straordinario.
  • Magdalene
    Niente, FKA Twigs non ce la fa a incidere un album meno che eccezionale. Impossibile definirla (per Wikipedia è “Alternative R&B”), è una delle cose più eccitanti uscite nella seconda metà dell’anno.
  • Norman Fucking Rockwell!
    Lana Del Rey ha prodotto anche lei il suo capolavoro, confermandosi la cantautrice americana più influente del millennio.
  • Assume Form
    Il nuovo album di James Blake normalizza un po’ quello che è stato un fenomeno tutto anni ’10 di alternative R&B (ancora!), grime, downtempo ed electro, ma si tratta pur sempre di un campione della produzione contemporanea (ha lavorato con Brian Eno e Stevie Wonder oltre che con Frank Ocean e Bon Iver, mica cazzi).
  • Fear Inoculum
    Il ritorno dei Tool, chevvelodicoaffà.
  • When we all fall asleep where do we go
    Billie Eilish è il fenomeno pop dell’anno, con buona pace di Ariana Grande che sta in tutte le liste e io invece snobbo. Billie è molto più figa.
  • Cuz I Love You
    Oh, a me Lizzo piace assai, mi piace la sua attitudine, la apprezzava anche Prince e ne aveva ben donde. Qui meno rappusa e più funky soul, ma coinvolgente sempre.
  • Liberato
    Vogliamo dire il miglior album italiano dell’anno? Diciamolo pure. Liberato spacca.
  • i,i
    Sempre più ostico Bon Iver, sempre più sperimentale, sempre più affascinante. Gelido.
  • Hype Aura
    L’altra rivelazione italiana (ma già li conoscevamo) alla prova del primo album. Rap emozionale di intelligente derivazione cantautorale. Interessanti.

Per farne stare solo dieci ho escluso Paprika di M¥SS KETA e quel piccolo gioiello trap che è 236451 di Tha Supreme, Days of the Bagnold Summer dei Belle and Sebastian o Sunshine Kitty di Tove Lo e poi, e poi… se guardo alla mia bibbia della musica on line (Pitchfork) mi rendo sempre conto che ci sono un sacco di album fighi che io non avrò mai tempo di ascoltare, ma tant’è.

SERIE TV

Di serie TV ne guardo sempre molte, per anni è stato un lavoro, poi si sa dov’è andato a finire il giornalismo oggi… ma questa è un’altra storia. Vi piazzo qui le dieci serie che più mi hanno entusiasmato tra gli esordi di quest’anno, barando solo una volta e per poco.

  • Fleabag
    Capolavoro assoluto dell’anno. Di quelle serie che ami o odi. Io amo Phoebe Waller Bridge. E ho amato alla follia Fleabag. E ho anche barato perché la prima stagione è uscita nel 2017 ma qui da noi ha fatto il boom quest’anno.
  • Watchmen
    Nella seconda metà dell’anno, la serie su cui non puntavo, e invece. Stimolante a mille, dialoga in modo eccellente con il materiale di riferimento, ponendo domande invece di dare risposte rassicuranti. Puro Lindelof.
  • The Mandalorian
    Impossibile non ri-innamorarsi dell’universo Star Wars vedendo questa serie. Jon Favreau ci ha “rimesso” il cuore. Baby Yoda è puccissimo.
  • His Dark Materials
    Per due decenni ho atteso una versione potente su schermo della trilogia di Pullmann. Adesso è arrivata, ed è bellissima. Per orfani di Game of Thrones (non c’entra un cazzo, ma è fantasy, oh).
  • Unbelievable
    Come dice il titolo. Una miniserie crime tutta al femminile che punta tutto sulla recitazione. Intensa, sorprendente, con un punto di vista decisamente anticlimatico.
  • Chernobyl
    Altra miniserie che quest’anno ha spaccato. Non un docudrama ma una versione fiction (va ricordato). Eppure la storia è vera ed è più tesa di qualsiasi thriller.
  • The Boys
    Lato supereroi, Amazon Prime ha avuto una delle idee migliori, quella di affidare a Eric Kripke l’adattamento di una serie ultrapulp di Garth Ennis. Esilarante.
  • Russian Doll
    Natasha Lyonne, già una delle mattatrici di OITNB, alla sua prima prova di autrice. A me ha convinto assai. Una sorta di Ricomincio da capo mortifero e sarcastico.
  • The Dark Crystal: Age of Resistance
    Un mondo ricreato “come una volta”. I pupazzi di Frank Oz tornano a far spalancare gli occhi in questo prequel del film del 1982.
  • Sex Education
    La serie comedy che ho preferito quest’anno, con un simpatico e imbranato Asa Butterfield alle prese con il liceo e una madre (Gillian Anderson) sessuologa.

A seguire, le cinque serie già ben avviate o che addirittura si sono concluse con maggior gloria nel 2019.

  • Game of Thrones 8
    Si può dire quel che si vuole, ma è stata una conclusione epocale. Non vedremo mai più una serie così.
  • Stranger Things 3
    Non ha ancora fatto il salto dello squalo, e per questo rendiamo tutti grazie. La rievocazione degli eighties non è mai stata così puntigliosa. A causa di Stranger Things adesso abbiamo la nostalgia “di ritorno”.
  • The Crown 3
    Eccezionale serie britannica sulla cosa più britannica di sempre (la corona). In questa stagione si fa apprezzare parecchio Carlo.
  • Derry Girls 2
    Piccola comedy irlandese che lascia il segno. merito dell’entusiasmo contagioso delle giovani protagoniste e dei loro sexyssimi accenti.
  • OITNB 7
    Orange Is The New Black è stato probabilmente il primo grande successo di Netflix quando Netflix non era ancora… beh, Netflix. Anche in questo caso, con le dovute differenze, una conclusione epocale. Si piange assai.

E come sempre, anche qui ce ne sarebbe ancora da vedere… La mia lista è lunga e il tempo è tiranno: What We Do in the Shadows, Pen15, Euphoria, Barry e tutte quelle che ho iniziato e lasciato indietro come Marvelous Mrs. Maisel, Daybreak, Pose, Il regista nudo, tra le altre.

FUMETTI

  • Momenti straordinari con applausi finti
    Gipi, amatissimo Gipi. Quando ero un pischello c’era solo Andrea Pazienza, oggi c’è Gipi. Gipi che scrive e disegna un libro che parla di me, forse perché parla di tutti. Sicuramente il miglior graphic novel dell’anno e se la gioca con La terra dei figli nella produzione dello stesso Gipi. Questo è più nella vena autobiografica, e ci ricorda che siamo tutti dei coglioni.
  • RSDIUG (Roma Sarà Distrutta In Un Giorno)
    La seconda uscita di Recchioni per Feltrinelli è un mix sperimentale di kaiju e romanità, esperimenti pittorici, Frank Miller e Bill Sienkiewicz, una storia corale di distruzione che lascia l’amaro in bocca.
  • La scuola di pizze in faccia del prof. Calcare
    C’è poco da dire, Zerocalcare è un po’ come Joker. O come i Tool, via. Ogni volta che esce un suo libro è festa grande.
  • Le spaventose avventure di Kitaro
    Un grande classico di Shigeru Mizuki (il manga è degli anni ’60) finalmente ristampato da J-Pop: Kitaro è un ragazzo yokai che vive nei cimiteri e ha ogni sorta di avventure: una gioia per gli occhi (quest’anno ci sarebbe già il secondo volume ma io sto indietro e vi linko il primo).
  • Diario della mia scomparsa
    Una autobiografia per immagini, quella di Hideo Azuma (Pollon, Nana Supergirl). Alcolismo, vita da homeless e uno spaccato inedito della società giapponese. Azuma è morto pochi mesi dopo l’uscita del manga.
  • Dylan Dog Oggi sposi / E ora l’apocalisse
    Il “caso mediatico” dell’anno, almeno in Italia, si risolve in due numeri di Dylan Dog sopra la media per scrittura, disegni e significato nell’ambito del mercato fumettistico nazionale. Chapeau a Recchioni e a tutti i disegnatori coinvolti (tanti). Nel link l’edizione in volume del n. 400.
  • Il principe e la sarta
    Jen Wang ci trasporta nella belle époque dove un principe che ama travestirsi stabilisce un rapporto con una sartina dalle idee ambiziose. Inutile dire che è forse il graphic novel più originale letto quest’anno.
  • Melvina
    Rachele Aragno per Bao ci fa entrare in punta di piedi nel mondo di Melvina, preadolescente in viaggio “nell’aldiqua” con tavole acquarellate e un tratto che ricorda Grazia Nidasio.
  • In cucina con Kafka
    Delizioso, delizioso Tom Gauld. Le sue strisce sono sempre portatrici di grandi sorrisi e sogghigni.
  • House of X / Powers of X
    Ammetto che ultimamente leggo pochissimo Marvel e DC, ma questa minisaga di Jonathan Hickman mi è sembrata veramente degna di nota. Stiamo ovviamente parlando dell’ultimo rilancio/reboot dell’universo X-Men.

Da leggere, come sempre, rimangono ancora molte uscite del 2019… Per esempio Corpi estranei di Shintaro Kago, Luna 2069 di Leo Ortolani, Andy di Typex, Rusty Brown di Chris Ware, P. La mia adolescenza trans di Fumettibrutti.

CARTOON/ANIME

Anche (ma non solo) a causa della mia condizione di babbo di seienne, sto macinando animazione come non mai. Il bello è che ci rincorriamo, io da sempre studio il cinema di animazione e mi godo le serie anime e Cartoon Network. Lui, passata la fase Peppa/Masha/Bing/George ora mi segue con entusiasmo anche su cose più adulte (che però guardo rigorosamente con lui, non chiamate il telefono azzurro). Parto con i cinque lungometraggi animati più apprezzati del 2019.

  • Steven Universe Movie
    Rebecca Sugar fa praticamente un giro trionfale dopo 5 stagioni di SU, e ci propone un musical classico con tutti i crismi, godibile da fan e non iniziati e soprattutto con un villain indimenticabile.
  • Klaus
    Animazione tradizionale con un’occhio particolare all’illustrazione di una volta (e con sorprendente blend dei personaggi negli ambienti). Klaus è la storia di Natale “definitiva”, apprezzabile da grandi e piccini.
  • Toy Story 4
    Tutte le volte mi dico “non può essere che a sto giro la spuntino”, e invece la spuntano. Anche il quarto episodio è decisamente sopra la media.
  • Pets 2
    OK, non è magari all’altezza del primo, ma come franchise Pets è tutto sommato una delle cose più divertenti degli ultimi anni, e questo sequel soddisfa comunque.
  • Modest Heroes
    Piccola grande sorpresa dallo studio Ponoc che mette insieme tre mediometraggi totalmente diversi tra loro e li distribuisce con questo titolo. Da vedere assolutamente (su Netflix).

Proseguo con le cinque serie animate più belle (intendo quelle che un adulto può guardare insieme a un bambino con genuino entusiasmo e interesse)

  • Craig of the Creek
    Serie “figlia” di Steven Universe, con tematiche più quotidiane ma trattate sempre in modo surreale grazie all’immaginazione di Craig, Kelsey e JP, i tre protagonisti “ragazzi del ruscello”.
  • Steven Universe Future
    Dopo il film poteva sembrare che non ci fosse più nulla da dire, ma molti nodi devono ancora venire al pettine. La nuova versione di SU ci proietta in un mondo diverso, dove ai vecchi problemi se ne aggiungono di nuovi…
  • Infinity Train
    La sorpresa di quest’anno di Cartoon Network, partita come una miniserie autoconclusiva ma recentemente promossa a “serie antologica”. Surrealismo a volontà (da uno degli autori di Regular Show).
  • She-Ra and the Princesses of Power
    Per gli orfani di Avatar (il design è simile) o per gli amanti delle storie LGBTQI+, a me She-Ra è garbato moltissimo. Molto del merito va alla supervisione di Noelle Stevenson.
  • Victor & Valentino
    La serie “messicana” di Diego Molano è un’altra delle chicche 2019 di Cartoon Network. I due fratellastri del titolo vanno in cerca di avventure soprannaturali e misteriose, raccogliendo un po’ il testimone dell’indimenticato Gravity Falls.

E ora le cinque migliori serie animate che però non dovreste far vedere al vostro bambino di sei anni manco morti.

  • Undone
    Tra le serie “per adulti” la vera sorpresa dell’anno, tutta in rotoscoping e con una struttura narrativa che vi farà uscire di testa.
  • Love Death + Robots
    Cyberpunk fuori tempo massimo, si potrebbe dire, ma molto eccitante. Mecha design impeccabili, ultraviolenza e storie a sorpresa per questa miniserie antologica.
  • Rick & Morty 4
    Il regalo di fine anno… Rick e Morty è una delle serie animate più cool degli ultimi anni per chi ama la fantascienza e il politicamente scorretto.
  • Bojack Horseman 6
    C’è solo metà stagione, per il momento, ma l’hype è altissimo. Si conclude la parabola di Bojack, il cavallo depresso e alcolista, e non saranno rose e fiori.
  • Made in Abyss
    Una serie anime con design chibi che però è un distillato di angoscia e disagio. Se amate il fantasy e non vi disturba un po’ di loli/shota, può essere la vostra tazza di té.

Ancora da vedere… Weathering with you (stupidamente perso agli eventi organizzati in autunno al cinema), Children of the Sea, I Lost My Body, Violet Evergarden (il film).

Se siete arrivati fino qui, complimenti. Vuol dire che a) avete veramente fame di nuovi contenuti culturali da consumare o b) siete ossessivo compulsivi e listaroli come me. Io avrò comunque assolto il mio compito se vi sarete segnati anche solo una cosa da leggere, vedere, ascoltare. Sipario.

P.S.: comunque se non ne avete ancora basta, ci sarebbe la lista dei 100 meme del decennio di Buzzfeed che vi metterà veramente alla prova.