IO E WOODY

In queste settimane sono particolarmente assorbito dalla lettura di un tomo che suggerisco a quanti di voi amano leggere di cinema. Si tratta di Conversazioni su di me e tutto il resto, di Woody Allen ed Eric Lax. Dove Woody è Woody, ed Eric Lax è un amico giornalista che lo ha tallonato dal 1972 a oggi chiacchierando con lui sulla lavorazione di ogni film realizzato dal maestro di Brooklyn, da Prendi i soldi e scappa a Vicky Cristina Barcelona. Non è un libro di battute, quindi non aspettatevi nulla di particolarmente umoristico (anche se in retro di copertina c’è una delle migliori battute sulla morte mai scritte).

Si tratta di interviste raccolte nell’arco di 36 (trentasei) anni e riorganizzate in maniera certosina dal curatore in modo da coprire le varie fasi del processo cinematografico, dall’idea alla scrittura, dal casting alle riprese, dal montaggio alla colonna sonora, per concludere con uno sguardo retrospettivo dello stesso Allen sulla sua intera carriera (e non ne vengono fuori giudizi lusinghieri).

Io amo molte cose di Woody Allen (non tutte, perché è chiaro ai più che – specie di recente – il suo talento è un po’ annacquato). Ma, come tutti, identificavo Allen nel suo personaggio, e non andavo al di là. Invece Woody Allen regista è molto diverso, e molto poco auto indulgente. La cosa più sorprendente è verificare il giudizio mediocre (ma da lui ampiamente giustificato) che dà del suo lavoro nelle sue opere più celebrate dal pubblico (Io e Annie o Manhattan, per fare due esempi famosi).

Leggendolo mi rendo conto che Allen, nel frattempo, ha realizzato 40 film, alcuni dei quali non ho visto (mi sono via via disaffezionato per tutti gli anni ’90 e 2000, finché non è uscito Match Point e ho scoperto un rinnovato amore). E mi è tornata la voglia di procurarmi alcuni titoli minori come Broadway Danny Rose, Un’altra donna, Misterioso Omicidio a Manhattan (a suo dire, uno dei film di cui è più soddisfatto oltre a Match Point).

Urge capatina alla FNAC per vedere se i suoi vecchi film stanno sempre a 9 euro.
O se, data l’uscita del libro, li hanno rimessi a 12. Che son capaci di tutto. Sti bastardi.

TIJUANA SEX REVOLUTION

Di recente, in una libreria di remainders, ho pescato un volumetto prezioso: Tijuana Bibles, di Hazard Edizioni (altrimenti note per l’edizione italiana di serie di Osamu Tezuka, Leiji Matsumoto e i pregevolissimi albi del nostro Lorenzo Mattotti). Il libretto di per sé può passare inosservato: l’ignaro lettore che lo sfogliasse in libreria si troverebbe di fronte a rozzi disegni pornografici spesso del livello di quelli che si trovavano sulle pareti dei cessi delle medie.

Ma la pubblicazione ha dalla sua un agile apparato critico, che è quello che serve per inquadrare il fenomeno e capirne l’influenza. Perché dire tijuana bible in America è come parlare dei mitici calendarietti del barbiere da noi (io negli anni ’70 ancora ne trovavo diversi dal barbiere sotto casa – un esempio qui). Oggi sono oggetto di collezionismo, ma negli anni ’30 – il decennio in cui ebbero la loro massima diffusione – si trattava di un fenomeno illegale che però espose i giovani maschi americani all’idea di rivoluzione sessuale.

Dove per rivoluzione si intende soprattutto l’idea eversiva che la posizione del missionario non fosse l’unica possibile e praticabile.

Tralasciando gli aspetti sociologici, quello che soprattutto interessa dei tijuana bibles, è l’aspetto fumettistico. In otto pagine scarabocchiate, troviamo Popeye, Biancaneve, Arcibaldo e Petronilla, Lil’ Abner, Topolino, Dick Tracy, Flash Gordon e un po’ tutti i personaggi più noti dell’epoca impegnati in prodezze sessuali spesso inverosimili. Uno sberleffo alla produzione “media” che grazie alle agenzie di syndacation si andava normalizzando anno dopo anno, presentando storie sempre più innocue (persino Hollywood nel 1934 se ne venne fuori col Codice Hays).

L’eco dei tijuana bibles arriva fino a noi sotto forme spesso irriconoscibili. Ma riflettendoci, se non ci fossero state le orge bollenti di Poldo, Braccio di Ferro e Olivia, non ci sarebbe stato Mad, non ci sarebbero stati Fritz il Gatto e Zap Comics di Robert Crumb, non ci sarebbe stato Gilbert Shelton, e a quanto pare nemmeno Art Spiegelman, che di certo non è ricordato per la sua produzione pornografica, ma che sui bibles ci ha scritto un intero saggio. A pensarci proprio bene bene, forse oggi non ci sarebbe neanche Makkox. 🙂

Il libro va assolutamente reperito, ma nel caso non si trovi, può bastare una visita a Tijuanabibles.org (astenersi benpensanti): non c’è molto apparato storico-critico, ma ci sono decine di storie scansionate. Per un po’ di storia in più e per i veri collezionisti, c’è Tijuanabible.org (il nome è quasi uguale ma il sito è diverso – un po’ più commerciale). Se poi non siete interessati alla pornografia vintage, mi chiedo perché siate arrivati al termine di questo post.

Anzi, mi chiedo cosa ci facciate qua in generale. Via!
Non siete degni nemmeno di Renzo Barbieri!
Tornate ai vostri video di Pamela Anderson! Sciò!

LE CAPOCCETTE DE PAPERINO

Il prodotto editoriale è una di quelle rare cose che posso pensare di acquistare a rate. Forse perché le edicole mi abbagliano, i giornalai mi affascinano e qualunque cosa i gruppi editoriali tentatori mi propongano “in più volumi” ha un indiscussa presa sulla parte più antica e animale del mio cervello. In particolare quando si parla di fumetti. E ancora di più quando si parla di Carl Barks, e della ristampa della sua opera completa. Mi vedo perciò costretto, fin da gennaio, ad acquistare ogni settimana La dinastia dei paperi proposta dal Corriere. Il problema è che non se ne vede la fine!

Non che sia spiacevole, ma sto cominciando a sognarmi le capoccette de Paperino pure quando vado in trance… Adesso le risposte dall’inconscio me le dà direttamente Zio Paperone. Ma sento che devo farlo. Barks per me è Dio. Da piccolo, per me c’erano Barks e Floyd Gottfredson, e poco altro. Poi, siccome faccio parte della schiera degli ammiratori incondizionati dei paperi, e Topolino mi è sempre sembrato un po’ puzzone (del suo mondo salvo solo Pippo perché è uno sballato ed Eta Beta perché mangia la naftalina) è rimasto solo Barks.

Potreste chiedervi se sono stato ragazzino negli anni ’50. Ovviamente no. Solo che – a fronte di una dieta equilibrata di Topolini dei miei anni d’oro (1977-1982) tuttora conservati a casa dei miei – ho sempre fatto scorpacciate di storie pubblicate tra il 1959 e il 1964 (mio padre curiosamente i suoi Topolini li leggeva a vent’anni) e di Super Almanacchi Paperino e Classici di Walt Disney che ripubblicavano spesso e volentieri il mitico Zio Carl (oltre alle “grandi parodie” molto apprezzate dal sottoscritto). Poi ovviamente c’erano Giovan Battista Carpi, Romano Scarpa e Luciano Bottaro, al cui lavoro nell’ambito del Disney Program andrebbero dedicate altrettante serie superlusso a volumi commentati. Mettiamoci anche Giuseppe Perego (grande copertinista) e Giorgio Cavazzano (l’unico dei “grandi” ancora in vita), e abbiamo ricostruito il mio personale olimpo disneyano. Ah, no: dimenticavo Don Rosa, il cantore di Zio Paperone che si ispira dichiaratamente a Barks nello storytelling e nei disegni.

La dinastia dei paperi merita, è molto filologico, ricco di apparati e di chicche impensabili, tipo riproduzioni dei quadri a olio di Barks, storyboard, tavole iniziate e mai concluse (o concluse dall’amorevole Don Rosa). Non potrebbe essere altrimenti, quando in redazione c’è l’immenso Luca Boschi. Siamo a quota 23 volumi, e la mia libreria sta già implorando pietà. Ci vorrà pazienza fino al numero 40. Ma ne vale la pena. Paperino è trasversale. Piaceva anche a Peppe Er Pantera, responsabile dell’espressione romanesca del titolo.

Rileggendo il post vedo che potrebbe essere usato come una mini enciclopedia dei paperi… Non ho questa presuzione, ovviamente, ma se siete incuriositi dalle mie ossessioni catalogatorie, potreste dare un’occhiata al progetto InDucks (c’è anche in italiano) che è una manna per i ricercatori disneyani e per i fan un po’ ossessivi come me.