PERCHÉ IL MET GALA?

Come spesso accade quando posto qualcosa sulla moda, anche ieri c’è stato chi mi ha chiesto “perché la moda” (sottintendendo ovviamente “…e non il calcio“, o uno sport qualsiasi, per essere democratici). In effetti, perché la moda? Ovvero, perché un maschio etero e cisgender di mezza età (quando dico così mi viene sempre in mente la “vecchia checca raffreddata” di Robert Preston in Victor Victoria) dovrebbe seguire qualcosa come il Met Gala?

Il sottotesto chiarissimo è che il maschio si deve interessare solo allo sport (in quanto pratica agonistica in cui un singolo o una squadra prevalgono e danno dimostrazione di forza/abilità), mentre interessarsi alla moda (cioè ad una forma di espressione artistica che più di ogni altra è soprattutto “espressione di genere”) ha una forte connotazione “da femmine”.

Ora. Siamo nel 2023 e a me pare persino fuoriluogo ricordare che l’espressione di genere ognuno se la vive come gli/le pare, che l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono due cose ben diverse tra loro e che comunque ognuna delle due non è un interruttore off/on tipo maschio/femmina, etero/omo ma è piuttosto un dimmer (come quello delle luci led, vedete che riferimenti maschi che c’ho) che passa attraverso una regolazione piuttosto fine in uno spettro che va da “l’omm ha da puzza’” a “esco fuori conciato come Lil Nas X” (all’interno del quale ci stanno tante posizioni come “mi metto lo smalto e mi trucco anche se ho la barba perché sto bene così e non rompetemi il ca**o, grazie“).

Un dimmer che peraltro non ha una sua regolazione fissa nel tempo, perché in diverse fasi della vita (o della giornata, se è per questo) un maschio può oscillare tranquillamente in diverse posizioni sugli assi cartesiani del genere e dell’orientamento.

Detto ciò, lasciatemi approfondire. Secondo l’interpretazione corrente (diciamola come sta: secondo il patriarcato) la moda vista come strumento di seduzione è appannaggio femminile perché… perché è la donna che “deve sedurre”. La donna esiste per lo sguardo maschile e deve impegnarsi in una continua corsa alla seduzione del maschio che non fa nulla se non “attivare” il suo desiderio e porsi come destinatario “passivo” della seduzione.

Ma usciamo per un momento dalla gabbia mentale che il patriarcato impone al maschio. Perché spero siamo tutti d’accordo che il patriarcato impone “gabbie” tanto al genere femminile quanto a quello maschile, costretto a vivere in una parodia di sé stesso nella costante e insensata celebrazione del proprio privilegio. Perché il maschio non dovrebbe usare la seduzione? Il desiderio femminile esiste, possiamo autorappresentarci come un soggetto attivo destinato allo sguardo femminile. Perché no? Non siamo “costretti” a interpretare il ruolo che la società vuole che interpretiamo.

Questo vuol dire essere queer? Forse. Taika Waititi e Pedro Pascal sono gay? Non lo so, e credo che non ci dovrebbe interessare (Lil Nas X sì, ma quella è un’altra storia e un altra modalità espressiva che impone una rappresentazione, una affermazione di “presenza” agli occhi del mondo).

Non è importante l’orientamento sessuale o l’identità di genere nel momento in cui voglio usare l’espressione di genere in modo fuori dagli schemi. Questo vuol dire non farsi inquadrare dal sistema patriarcale che detta la legge non scritta dell’uomo che deve vestirsi solo di nero, blu e marrone (armocromia, anyone?), vuol dire – anche se in minima parte e su un tema considerato frivolo – combattere il patriarcato dall’interno e ricercare una vera parità di genere. OK, magari non sarà il salario, ma è comunque una parità di “sguardi desideranti”.

Non importa che questi outfit siano considerati poi – anche da molte donne – inguardabili. Il punto è ribaltare la prospettiva e riappropriarsi del corpo (e dei vestiti) come mezzo di seduzione (di donne o di uomini, non importa). Oppure possiamo decidere di andare decisamente oltre l’umano, e allora lì non ci resta che Jared Leto.

BACK TO MINE

All’inizio del secolo c’era questa collana di album intitolata “Back To Mine“. Band come gli Everything But The Girl, i Morcheeba, gli Orbital, gli Underworld o i Groove Armada apparivano in catalogo producendo quelle che allora si chiamavano compilation di brani altrui mixate insieme secondo il loro personale gusto. Per me erano un piccolo cult personale (ho adorato anche le uscite di Prodigy e Royksopp). Ma in questo post non voglio parlare di musica, era solo il gancio per giustificare il titolo.

Back to mine vuol dire “ritorno alla roba mia“, ritorno a qualcosa che magari avevi un po’ perso per strada e che invece hai improvvisamente voglia di ritrovare, di rivitalizzare. OK, ci metterò sicuramente un po’ a scrivere questo post, che arriva dopo circa 15 anni di tempo “diverso”. Quello che leggete adesso è il frutto di un work in progress mentale che dura da alcuni mesi.

Questo blog è un blog personale. La sua tagline è “cultura generale digitale” perché io sono sempre stato (e mi sono sempre sentito) una sorta di divulgatore di quella che è la digital culture in senso lato e poi sì, sono anche un nerd vecchio stampo, per cui adoro parlare di tutto quanto fa pop culture. Ma è comunque un blog personale.

Io lavoro nel campo da più di 25 anni, praticamente metà della mia vita. Faccio il digital communication specialist (almeno così sta scritto sul mio profilo LinkedIn) e insegno storia dei media digitali. Insegno… diciamo che coinvolgo, fornisco background e scenari per alimentare la curiosità e gli approfondimenti sulla materia. Quindi, OK, forse insegno veramente. Questo aspetto di me non è mai apparso in questa sede perché… non so nemmeno io perché.

A metà degli anni ’90 il web era il fenomeno del momento. Il concetto di ipertesto (che – seppur dato per scontato – ancora oggi mi sembra rivoluzionario nell’approccio ai contenuti) aveva la stessa portata mind blowing che oggi tendiamo a dare alle evoluzioni di OpenAI, di ChatGPT, di Midjourney e Dall-E.

Nel 1999 Douglas Adams (indiscutibilmente uno dei miei spiriti guida) scrive un breve saggio intitolato kubrickianamente “How to Stop Worrying and Learn to Love the Internet“. In questo saggio si inventa le famose tre regole sul nostro rapporto con la tecnologia che grosso modo si possono tradurre così:

1) Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
2) Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
3) Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.
Douglas Adams

Queste tre regole (che ormai puoi trovare su tutti i siti di citazioni e frasi motivazionali un tanto al chilo) sono simpatiche, contengono una grande verità e al tempo stesso sono paradossali, un po’ come tutto quello che è uscito negli anni dalla penna di Adams. Se le applico alla mia esperienza personale, è ovvio che l’ascesa del web negli anni della mia formazione universitaria, tra il 1990 e il 1995 ha pesato molto sulle mie opportunità di carriera. Ho avuto la fortuna di immergermi fino alle punte dei capelli in quel tipo di cultura nonostante arrivassi da un liceo classico e da una scelta universitaria prevalentemente legata all’audiovisivo, al cinema e alla comunicazione pubblicitaria.

Sempre guardando alla mia esperienza personale, ancora oggi che ho più di 50 anni e faccio parte della prima generazione che sta “invecchiando in rete, non ho smesso di essere curioso e di analizzare ogni fenomeno che esce fuori (consapevole che il ciclo dell’hype è sempre più frenetico e famelico). Tra i 22 e i 32 anni ho avuto un sito web in cui immagazzinavo tutto quanto mi piaceva. A 33 anni ho scoperto il web 2.0 e me ne sono innamorato subito. Il web 2.0 mi permetteva di mettermi in gioco personalmente, era una bellissima utopia di come il mondo reale avrebbe potuto essere influenzato e plasmato da quello virtuale (perdonatemi, a quel tempo si faceva ancora questa distinzione ormai inutile).

Questo blog è on line da 20 anni (il compleanno lo festeggiamo al 10 novembre, data del mio primo post). Ma già dopo cinque anni il web 2.0 e la sorpresa insita nel fatto che non scrivevo più “solo per me” ma per un nutrito gruppo di impallinati che come me condividevano la passione per il blogging era un po’ scemata. Il Web 2.0 si stava trasformando in “social web” e prima Twitter, poi Facebook, poi Tumblr, e a seguire Instagram, Pinterest, Snapchat e TikTok hanno cominciato a spezzettare in tanti frammenti sempre più piccoli quell’attenzione che non a caso è protagonista del nuovo modello economico / di marketing prevalente.

Sebbene fossi già ben oltre i 30, mi sono buttato senza esitazioni nel social web, inizialmente convinto che questa potesse essere una “naturale” evoluzione di un web in cui i produttori di contenuto potessero trovare non dico un posto al sole, ma un’opportunità per far sentire la propria voce. Nel giro di una decina d’anni i blogger sono diventati prima youtuber, poi influencer, infine creator. Ovviamente i social (e il loro modello di business, perché ogni social è un’azienda con i suoi ricavi e i suoi bilanci, ma sembra che la maggioranza lo stia scoprendo solo negli ultimi anni) non hanno migliorato il mondo.

O meglio, il nostro utilizzo dei social non lo ha fatto. Perché sappiamo bene che si tratta di strumenti come altri, non dotati di per sé di una propria agenda – ma strumenti cui fare attenzione perché sono, diciamo così, in affitto e non di nostra proprietà.  Strumenti che possono essere facilmente piegati alla generazione di fango, odio, prevaricazione, radicalizzazione.

Se guardo agli ultimi 5 anni, e alla misura in cui la produzione di contenuti per i social è diventata una delle due parti preponderanti del mio lavoro quotidiano (l’altra fetta grossa se la prendono la grafica e i video, spesso comunque declinati in funzione social), mi rendo conto che a poco a poco è cresciuta una disaffezione personale nei confronti delle piattaforme. Oggi non provo più “piacere” a scorrere le timeline. Le notizie – nonostante tutte le vicissitudini decennali che hanno visto Facebook e Google interfacciarsi con il sistema dei media tradizionali – continuo da anni a leggerle sul mio (accuratamente settato) feed reader. Il senso dei social non è nemmeno più “seguire e farti seguire” dai tuoi amici / contatti / affini, ma è sostanzialmente il personal branding. Un concetto che al momento mi pesa più che interessarmi.

Ma ci sono state, nel tempo, delle spie. Ho iniziato a riportare su Facebook le recensioni che scrivevo su Letterboxd (piccolo inciso: Letterboxd è l’unico social che uso costantemente e che trovo utile, anche se molto verticale – se siete lì seguiamoci), solo per il fatto che comunque ho una base di follower sui social di Meta che spiacerebbe bruciare. Ho iniziato poi a raccogliere queste recensioni ogni mese qui sul blog e sul progetto gemello di Medium, che in sostanza è un mirror di questo blog e devo ancora capire se abbia più senso migrare lì e basta oppure no (ma, di nuovo: è una piattaforma proprietaria con le sue regole).

Nel frattempo, molti creator “storici” (chiamiamoli così, sono i miei fellow genxers o in alcuni casi illuminati millennial) hanno iniziato a proporsi come curatori di newsletter. Un mezzo che mi interessa molto ma che non ho ancora mai praticato per due motivi: primo, non credo proprio di avere la costanza di scrivere uno zibaldone alla settimana e secondo, quando comincio a digitare non riesco a staccarmi dal formato longform.

Ad oggi, di newsletter, ne seguo molte. Seguo Polpette di Vanz e Koselig di Mafe (ma ricordo ancora maestrinipercaso.it), seguo Ellissi di Valesio Bassan e Zio di Vincenzo Marino, seguo Heavy Meta di Lorenzo Fantoni e Link Molto Belli di Pietro Minto, [mini]marketing di Gianluca Diegoli e Between the Lines di Ella Marciello, Fuori le serie di Nicola Cupperi e Servizio a domicilio di Giulia Blasi, Slow News di Alberto Puliafito e Scrolling Infinito di Andrea Girolami… e potrei continuare. Insomma, questo se vogliamo è il mio nuovo blogroll, tutto ordinatamente archiviato su Gmail.

Questa tendenza in atto da qualche anno mi fa sempre più pensare a… no, non a iniziare una newsletter o un podcast (non so, eh… mai dire mai). Ma quantomeno a riprendermi ciò che è mio, a tornare al piacere della parola scritta e del flusso di coscienza, ché i reel sono fighi e sono anche loro nelle mie corde, ma i post lunghi di più.

Ecco, se mi avete letto fino a qui, tutto questo pippone era probabilmente per dire a me stesso e a voi (25) lettori che preferisco tornare alla roba mia e che vorrei spolverare queste stanze disabitate per troppo tempo e tornare a scrivere un po’ qui. Non semplicemente riciclando qui contenuti che ho prodotto per altre piattaforme, ma piuttosto (se è il caso) spammando sulle piattaforme contenuti che produco qui. A casa mia. Per me.
E anche per voi
, perché non è mai vero che si scrive solo per sé stessi.

FISSARE I PENSIERI AL MURO

Tra poco ricomincia la giostra e io non posso fermarla.

Morire durante le feste è una roba orribile, ma in effetti lascia a chi resta il tempo di stare in una sorta di bolla sospesa in cui ci stanno le onoranze funebri, i funerali, i rosari, le tumulazioni e tutte cose.

Ti lascia anche il tempo di affollarti la testa di pensieri confusi che rimbalzano nella testa e si mischiano. Per esempio, io mi sveglio e penso che ci sono un tot di robe da fare, che c’è la pratica dell’UVG per pagare meno la RSA, che c’è il problema del neuropsichiatra, che ci sono mille cazzi continui, e poi mi ricordo che no, che adesso sei morta, così, de botto, senza un perché.

E quindi sì, ci sono dei problemi da risolvere ma sono tutti altri problemi: la casa vuota, le utenze domestiche da sospendere, cosa vendere, cosa tenere. Problemi pratici, come la lapide che è ancora da mettere sulla tua celletta che poi cazzo non ti sbagliare a chiamarla loculo che parte un fraintendimento burocratico che lèvati.

E quindi questo 2023 comincia così: quella sensazione che potrei venirti a trovare incastrando i soliti tremila impegni settimanali ma poi no, non c’è più nessuno da andare a trovare. E comunque ogni volta che venivo a trovarti era sempre tutto una merda, volevi morire e infatti alla fine sei stata accontentata.

Però tutte le volte che passo davanti ai banchi del mercato dove vendono le famose maglie che ti piacevano penso “Peccato, non potremo più comprarti una maglia”. L’ultima che ti abbiamo regalato te l’ho fatta mettere nella cassa, un po’ come le sepolture egizie, fai il tuo viaggio con gli oggetti che ti piacciono. Volevo metterti le boccette di profumo nell’urna delle ceneri poi non ci stavano, ho optato per il tuo orologio. E a proposito di profumi, in farmacia hanno ricominciato a vendere quelle boccette a 5 euro di cui facevi collezione, ma non te le prenderò più.

La cosa strana è sentire che non sono più “figlio”. Sono “marito”, “padre”, “amico”, ma il ruolo di figlio non lo devo più interpretare. Che poi diciamocelo, negli ultimi 15 anni (soprattutto negli ultimi 5) è stato un ruolo bello scomodo, quindi da questo punto di vista per me è anche un sollievo. Ma sai che c’è. La persona muore, ma la relazione no, quindi posso essere titolato a sentirmi comunque anche figlio.

Purtroppo l’amore tra genitori e figli è costituzionalmente destinato a finire male. Prima i figli se ne vanno e poi i genitori muoiono. Pare sia l’ordine naturale delle cose.

Io mi butto nelle cose pratiche, perché sono fatto così. Anche perché le cose pratiche mi romperanno il cazzo per minimo un anno. Vorrei per esempio regalare il tuo pianoforte all’RSA che ti ha ospitato negli ultimi mesi. Tu non lo suonavi da più di 20 anni, ma lì magari può ancora rallegrare qualcuno.

Stavolta non è come quando è morto papà, lì c’era molto più sclero. Stavolta ci sono solo io, mi hai fatto lo scherzone ma io me lo aspettavo. Diciamo che era un anno che mi preparavo a questo momento e che lo vivevo un pochettino dentro di me. E quando è arrivato non è che ha fatto meno male, ma avevo più strumenti.

Mi spiace per le cose che potevamo ancora fare insieme e non faremo più, ma mi rendo conto che forse tu non avevi più voglia di fare niente.
E va bene così.