Lo confesso, anche se molti non se lo aspettano. Io sono un fan di Un posto al sole. Che attualmente resta l’unico motivo per me di "guardare la televisione" con un attenzione superiore alla soglia "sottofondo radiofonico" che spesso MTV mi offre. UPAS è una delle famose fiction italiane (ma il format è australiano) che può vantare un successo costante da diversi anni. Assieme a La squadra, sempre ideato da Wayne Doyle, mi pare l’unico prodotto televisivo italiano di fiction seriale degno di essere visto. Voglio dire, "ottimo artigianato", come si diceva un tempo parlando dei prodotti popolari più riusciti. Quello che mi manda veramente fuori di UPAS è il lavoro degli sceneggiatori. Sempre sull’orlo del trash senza mai finirci del tutto (tranne forse che nella storia tra Marina e Roberto). Sempre attento all’attualità ma pronto a trasformare il politico in privato, in modo da universalizzare i temi e renderli godibili da tutti, casalinghe e studenti, impiegati e operai, intellettuali e non. UPAS ha i suoi stilemi. Ad esempio, quando si vuole far capire che "non tutto è come sembra", due personaggi si abbracciano, ma uno dei due fa un mezzo sguardo in camera. Allora è la fine. Sappiamo che succederà qualcosa. In tema di sguardi, UPAS detiene la palma dell’occhio più sbarellato della televisione italiana – quello di Mina, il personaggio negativo entrato nel cast da qualche mese, pronta a distruggere la felicità di Franco e Angela. UPAS è un parcheggio di lusso per alcuni attori di razza della zona partenopea. Grazie a loro la fiction si alza un minimo come livello di recitazione rispetto ad altri prodotti del genere. UPAS è un rito serale, come l’aperitivo, come la cena. La funzione catartica di UPAS è farti vedere che c’è sempre chi è più sfigato di te. Giornalmente. Però sai che è una finzione (per quanto aristotelicamente verosimile), e allora ne esci pulito. Il resto della produzione televisiva di Rai e Mediaset lascia sempre una certa patina di sporco addosso.
LA CITTA’ INCANTATA
Per fare il paio con Belleville, arriva in DVD anche La città incantata di Hayao Miyazaki, di cui avevo già apprezzato moltissimo Princess Mononoke. Non c’è dubbio che è un classico dell’animazione giapponese e non a caso ha vinto l’Orso d’Oro come miglior film e l’Oscar per il miglior film d’animazione. Chihiro, dopo aver visto i suoi avidi genitori trasformarsi in maiali, resta prigioniera nel mondo incantato della strega Yubaba e dovrà servirla per riscattarsi. La aspettano più avventure del previsto. Strutturato come il viaggio di un’Alice giapponese (Chihiro), il film è un caleidoscopio di demoni, spiriti buoni e malvagi, bambini sovradimensionati, draghi, uomini con otto arti, streghe dall’aspetto di nonnine malefiche e inquietanti agglomerati d’ombra con le orbite vuote. Ma Miyazaki stempera il tutto con la sua ironia e il suo senso del meraviglioso. Non mi stupisce che in USA le produzioni Studio Ghibli siano distribuite da Disney. Si tratta di due ore di anime, ma è consigliabile anche ai non fanatici. Di sicuro annoierà chi non capisce la cultura giapponese almeno un po’.
APPUNTAMENTO A BELLEVILLE
Stasera, con la stanchezza negli occhi, mi sono visto Appuntamento a Belleville. La stanchezza è sparita presto (più o meno). Perché si tratta di un film d’animazione geniale, che dura poco più di un’ora e si inserisce nella linea che da Chaplin arriva direttamente a Tati. Non a caso le coordinate sono la Francia degli anni ’50, Jour de Fete, la comicità muta, affidata ad espressioni, movimenti e rumori. Le uniche parole pronunciate in tutto il film, a parte il commento al Tour de France che esce dagli altoparlanti e dalle televisioni, sono quelle iniziali e finali della nonna e del nipote ciclista. In breve, una nonna non sa più cosa fare per rendere felice il nipote. Scoperta la sua passione per la bicicletta lo allena fino a farlo diventare un campione. Il ciclista viene però rapito da due loschi figuri e portato oltreoceano, a Belleville. La nonna lo segue fortunosamente e, con l’aiuto di tre strane vecchine (il Trio di Belleville) salva il nipote e sbaraglia la banda della French Mafia (!). Quel che conta è la caratterizzazione dei personaggi, tutti colti nell’espressione dei loro tic: la nonna Souza con la sua ombra di baffi e le lenti pesanti, protagonista formidabile di tutta l’impresa; il nipote (antipatico fin dall’inizio, con quel nasone e lo sguardo bovino); il Trio di Belleville, deliranti vecchiette che mangiano rane, pescano con le granate e fanno musica concreta suonando frigoriferi, giornali vecchi e aspirapolveri; gli uomini della French Mafia – quelli a forma di armadio e quelli con il basco, la Gauloise senza filtro e il nasone… Ma il protagonista assoluto è il sound design, che compie il miracolo di appassionare lo spettatore ad una storia disegnata in modo molto… francese e di non far pesare assolutamente la mancanza di dialoghi. Sarebbero totalmente superflui. E grazie a Sissi per il consiglio…