OCEANIA E IL PROBLEMA DEI SEQUEL FOTOCOPIA

Quando si dice “andarci coi piedi di piombo“. Dopo i flop di Strange World e Wish, Disney torna… ai sequel. Oceania 2 nasceva per essere una serie su Disney Plus e invece è arrivato in sala. Nulla di male, sempre se non contiamo che nei prossimi anni ci toccheranno Zootropolis 2, Frozen 3 e 4 e via sequelando. Il problema di Oceania 2 è che è essenzialmente uguale a Oceania, ma con canzoni non memorabili e personaggi di contorno dimenticabili.

L’animazione è sempre al top, l’oceano come ambientazione è sempre eccezionale, fa piacere rivedere il maialino, il pollo, i pirati kakamora, Maui (qui parecchio depotenziato) e Vaiana “cresciuta” (adesso ha anche una sorellina molesta)… però non ci siamo sulla storia.

Vaiana è la navigatrice ufficiale del suo popolo e deve riunire tutti i popoli della Polinesia. Per far questo deve tirar fuori dai fondali oceanici un’isola maledetta dal dio delle tempeste Nalo. L’isola di Motufetu, da cui partono tutte le “correnti” che richiamano i navigatori dei vari popoli, è protetta da una sorta di gigantesco mollusco all’interno dei quali Vaiana e il suo equipaggio (una piacevole quanto poco sfruttata novità) si trovano imprigionati.

Qui incontrano Matangi, una donna pipistrello doppiata da Giorgia, che sembra una scagnozza di Nalo ma alla fine aiuta i nostri eroi. Boom! Crash! Gli eroi ce la fanno, Vaiana muore e poi risorge come semidivinità (così ho capito io, almeno) e torna unendo tutti i popoli della Polinesia. 

Alla fine c’è una scena nei titoli di coda un po’ stile Marvel che ci anticipa (dio non voglia) Oceania 3. Vabbè.

AMY SCHUMER È TORNATA

Io ho un debole per le comedian americane plus size, come Melissa McCarthy, Rebel Wilson, Octavia Spencer, Mindy Kaling, Beanie Feldstein e ovviamente Amy Schumer

Schumer – che ha un suo show su Comedy Central ma non è stata mai un gran che valorizzata al cinema – si è prodotta con la Happy Madison di Adam Sandler questo Kinda Pregnant che è la classica, simpatica romcom da Netflix, con in più l’ingrediente dissacrante del corpo comico e della parlantina di Amy Schumer stessa e di alcune sue colleghe molto interessanti.

Il concept è: Lainy, gelosa della gravidanza della sua migliore amica Kate, decide “per caso” di mettersi una pancia finta e spacciarsi per incinta pure lei. Incontra Megan a un corso di yoga in gravidanza (il corso si chiama “Mamaste”) e fanno amicizia. Seguono diverse gag e la classica infilata di equivoci mentre Lainy si innamora del fratello (Will Forte) della sua nuova “compagna di gravidanza”. 

La commedia intrattiene e scivola via bene, niente di che, c’è anche un Damon Wayans sottoutilizzato (è il fidanzato di Lainy all’inizio del film: lei crede che lui voglia proporle di sposarsi, lui invece vuole proporle una cosa a tre).  La cosa più divertente è che Lainy lavora come insegnante a scuola, e il suo rapporto con i ragazzini e con le colleghe sboccate, fumatrici o semplicemente sciroccate (Urzilla Carlson e Lizzie Broadway su tutte) è la cosa migliore del film.

I RAGAZZI DELLA NICKEL

Nickel Boys di RaMell Ross, tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead, è sicuramente uno dei migliori film candidati all’Academy Award quest’anno, ma è anche uno dei più “difficili”. Mi spiego subito: il film è uno di quelli che reinterpreta il materiale di partenza (il romanzo, che a me aveva fatto una certa impressione nel 2020) e tenta di creare un testo fedele ma al tempo stesso diverso (un po’ come ha fatto Jonathan Glazer con La zona di interesse di Martin Amis). 

La reinterpretazione di Ross passa attraverso una scelta registica che a molti – a me per primo – appare un po’ indigesta. Quasi tutte le 2 ore e 20 del film sono viste in soggettiva. Questo vuol dire che non vediamo quasi mai in viso gli attori protagonisti. In particolare, per tutta la prima metà del film, vediamo il giovane Elwood per alcuni fugaci secondi riflesso sul finestrino di un autobus, nel metallo di un ferro da stiro usato dalla nonna, nelle foto scattate con la fidanzata in uno di quei box per fototessera.

Elwood è lo sguardo del film, noi siamo Elwood, ma – in assenza del volto dell’attore – i neuroni specchio non si attivano e risulta molto difficile l’identificazione. Non che Ross punti a questo, sia chiaro. Il romanzo di Whitehead è in terza persona e racconta molte cose che – secondo la scelta di Ross – qui sono relegate al fuori campo, intuite e non viste.

Elwood, studente modello, viene pizzicato per un caso (ha accettato un passaggio dal ladro) in una macchina rubata e finisce nel tristemente famoso riformatorio Nickel Academy, dove ai bianchi sono permesse molte cose e i neri vengono sfruttati per un giro di boxe amatoriale e scommesse clandestine, spesso picchiati a morte e sepolti nel prato antistante.

Alla Nickel, Elwood conosce Turner e ben presto la cinepresa assume il punto di vista di Turner, un ragazzo più smaliziato, e a volte la stessa scena viene rivista due volte, dal punto di vista di Elwood e da quello di Turner. Il tutto è condito da spezzoni d’archivio che ci raccontano la condizione afroamericana negli anni ’60 di Selma e del Dr. King (bellissimo quello del film The Defiant Ones con Sidney Poitier durante l’arresto di Elwood) e da flash forward sulla vita di Elwood 40 anni dopo i fatti, che se non sono anche quelli in soggettiva, poco ci manca (la camera è montata dietro le spalle dell’attore in modo che si veda sempre solo la sua testa da dietro).

In Nickel Boys c’è la storia di una profonda amicizia maschile, c’è il coming of age e c’è un colpo di scena che non ricordavo (ma è così anche nel romanzo) che ribalta alcune convinzioni sul finale. Va detto però che è un film da seguire con molta attenzione perché il rischio della deriva formalistica è sempre in agguato, e se non amate il trucco della soggettiva perenne o inquadrature di diversi secondi su dettagli sfocati mentre tutto intorno la gente parla, non è il film per voi.