MY OWN PRIVATE TORINO FILM FESTIVAL

Novembre è mese di Torino Film Festival, e quest’anno, data la situazione che ormai tutti conosciamo e di cui non abbiamo più un cazzo di voglia di parlare, il festival si è svolto on line. Ovviamente nella mia vita, dal 1982 ad oggi, ho mancato pochissime edizioni “dal vivo”, ritagliandomi un qualche percorso di visione tra una sala torinese e l’altra. Mettendomi dal punto di vista di uno spettatore qualsiasi, però, non posso evitare di ripetere la stessa solfa che ho tirato fuori per Annecy, per Pordenone e per tutti i festival che quest’anno per la prima volta ho potuto “vedermi da casa”. Sì, la sala, l’esperienza collettiva e tutto il resto, ma io così riesco a vedere a prezzi contenuti film che magari non verrebbero mai distribuiti. Quindi ben venga il ritorno in sala ma non perdiamoci l’asset dell’edizione digitale. Andranno modulati i prezzi e le occasioni di visione, ma – io spero – non si tornerà più indietro e i festival saranno d’ora in poi sempre *anche* digitali. Detto ciò, ecco le #recensioniflash di novembre, totalmente #TFF38 edition!

THE DARK AND THE WICKED (Bryan Bertino, 2020)

#TFF38 cominciato col botto. Di un film come The Dark and The Wicked, quando finiscono i titoli di coda, si può solo dire a mezza voce “porca puttana”, e cercare subito di fare qualcosa di completamente diverso che ti scrolli di dosso la sensazione di angoscia maligna che questo horror ti appiccica addosso. Nell’ultimo decennio c’è stato un manipolo di horror “eccezionali”, come Babadook, Hereditary, Us, It Follows, The Witch. Film che non ti lasciano stare e che tornano da te anche dopo settimane o mesi che li hai visti. Scommetto sui miei incubi che il film di Bryan Bertino sarà uno di questi. La storia in breve: due fratelli tornano in una fattoria del Texas per assistere il padre morente e stare vicino alla madre. Quest’ultima si comporta in modo assai strano e diventa subito chiaro che sulla casa aleggia una presenza demoniaca. Non dico altro per non spoilerare, ma il male trasuda da ogni inquadratura (ovviamente impercettibili rotazioni di quadro, angolazioni assurde, lentissimi carrelli in avanti, apparizioni nell’ombra e tutto l’armamentario che il regista di horror deve sapere padroneggiare) e la sensazione è quella di assistere a una tragedia annunciata che fa mancare l’aria e fa drizzare peli che non sapevi nemmeno di avere. Perciò: bellissimo. Non perdetevelo. #recensioniflash

WILDFIRE (Cathy Brady, 2019)

Il mio #TFF38 prosegue con Wildfire di Cathy Brady. Uno studio psicologico su due sorelle, l’Irlanda, il confine, l’IRA, le bombe, la Brexit, il trauma collettivo e il trauma personale (un film di traumi grossi come una casa). Kelly torna dalla sorella Lauren dopo essere scomparsa per due anni. La causa di tutto è la morte della madre (suicidio? Incidente? Si capirà solo alla fine). Si parla molto di follia, di ereditarietà della follia e si recita molto sopra le righe (probabilmente inevitabile). Alla fine la rivelazione che il film è dedicato a una delle due attrici protagoniste, morta di cancro alla fine delle riprese. Questo sembra quasi mettere in prospettiva il modo in cui la storia viene messa in scena nel film. Si fanno i conti col passato personale e nazionale. Magari non è molto nelle mie corde, ma per un lungometraggio di esordio è tanta roba. #recensioniflash

LAS NINAS (Pilar Palomero, 2020)

Il mio #TFF38 prosegue con Las Ninas di Pilar Palomero, un’opera prima in concorso che ben rappresenta l’indomita anima “Cinema Giovani” del festival. È il racconto di un passaggio dall’infanzia all’adolescenza nei primi anni ‘90: Celia, la bambina protagonista, vive in un mondo schizofrenico. Studia in un collegio di suore ma quando esce trova una Spagna che tende a modernizzarsi e affrancarsi dal retaggio cattolico e franchista. L’arrivo di una nuova compagna da Barcellona la aiuta a definire la sua identità in contrapposizione alle compagne, alla madre single (che ha una storia misteriosa di cui non vuol parlare con la figlia) e alla società. Il film procede per accumulo di scene che possono sembrare già viste ma solo perché sono esperienze universali – in questo senso il film può funzionare a qualsiasi latitudine: la prima sigaretta, il primo rossetto, il gioco “non ho mai”, le ripicche con le amiche stronze, il sesso come tabù a scuola e a casa ma reso esplicito in pubblicità, canzoni, giornali, televisione. È un percorso di formazione per riuscire a trovare (anche letteralmente, come è chiaro dal finale) la propria voce nel mondo. #recensioniflash

MICKEY ON THE ROAD (Mian Mian Lu, 2020)

Dal #TFF38 arriva anche Mickey on the Road, un film taiwanese molto interessante che – a fronte della mia sostanziale ignoranza di cinema cinese, che ho praticato poco e solo per nomi di spicco – mi ha colpito molto. A differenza del cinema giapponese o coreano, chissà perché sono sempre stato portato a pensare che il cinema cinese per quanto sontuoso dovesse sempre avere una certa patina di noia. Non è così, ovviamente, e il mio pregiudizio probabilmente viene dal fatto di aver scelto male i film cinesi che ho visto in passato. Mickey on the Road è la storia di Mickey e Gin Gin, due ragazze – una mascolina e ribelle praticante di arti marziali nel tempio e una go go dancer per le discoteche con i capelli rosa fluo – che vanno alla ricerca di una presenza maschile “mancante”. Per Gin Gin è il fidanzato e per Mickey il padre che ha abbandonato lei e la madre depressa. Entrambi gli uomini si sono trasferiti a Guangzhou, nel continente. Parte il road movie coloratissimo (diciamo “al neon”, con una fotografia che fa molto Danny Boyle) e le due ragazze passeranno da una situazione all’altra, dalla leggerezza al disagio, fino a incontrare l’oggetto del proprio desiderio e – ovviamente – disilludersi. Nemmeno troppo velato il metaforone del viaggio tra le due Cine, quella “vera” di Taiwan e quella ormai dissolta nel capitalismo del continente, ma molto godibile il percorso di crescita delle due protagoniste pur con qualche scena mélo / estetizzante di troppo. Comunque una gioia per gli occhi. #recensioniflash

MOVING ON (Yoon Dan-bi, 2019)

Nella doppietta di ieri al #TFF38 spicca Moving on, esordio coreano di Yoon Dan bi (e sono 3 esordi di 3 registe che vedo finora, con Wildfire e Las Ninas). Il cinema coreano nella percezione dei “non praticanti” equivale a film di zombi oppure Parasite? Moving on è qui per smentire il pregiudizio. Accolto in patria come uno dei migliori film del 2019, Moving on racconta una “non storia” familiare, nel senso che succede poco o nulla ma c’è un’accorta messa in scena di rapporti familiari sottili. L’adolescente Okju e il fratellino Dongju sono costretti a vivere a casa dell’anziano nonno una volta che il padre si separa dalla madre. Ben presto in casa arriva anche la sorella del padre, anche lei in rotta di collisione col marito. Questo nuovo, strano e “forzato” nucleo familiare tira avanti come può, tra silenzi e litigate continue, tra un supporto al nonno anziano e una passeggiata, tra lo studio e il lavoro che manca, in una casa che – come in Parasite – è coprotagonista del film (le ultime inquadrature, piene di solitudine e di assenza, sono dedicate a lei). Un film familiare che è universale nella sua classicità e che ricorda tanto il Kore’Eda di Affari di famiglia quanto, in alcune inquadrature di convivialità o di vita familiare, direttamente Yasujiro Ozu. Da vedere. #recensioniflash

A MACHINE TO LIVE IN (Yoni Goldstein, Meredith Zielke, 2020)

Il documentario che non ti aspetti al #TFF38 è A Machine to Live In, di Yoni Goldstein e Meredith Zielke. Mi sono affrettato a prenotarmi perché io sono un fan malatissimo di Brasilia, la “capitale artificale” del Brasile. Brasilia è in assoluto una delle città al mondo che più di ogni altra desidero vedere toccare annusare, l’incubo di un architetto modernista nel quale perdermi. Perciò, non potevo esimermi. E qui, la sorpresa. A Machine to Live In (la città come organismo artificiale, un concetto di Le Corbusier che ha ispirato anche il demiurgo di Brasilia Oscar Niemeyer) è un documentario quantomeno fuori dagli schemi. Inizia con rumori industriali e inquietanti versi animali, prosegue infilando una sequela di inquadrature fisse su architetture impossibili e cemento armato bianco con piccoli dettagli umani o automobili in movimento, con una voce fuori campo pesantemente filtrata in modo da risultare degna di un album dei Nine Inch Nails che recita il commento audio a volte intrecciandosi in modo sfasato con una seconda voce che dice essenzialmente le stesse cose, in un assalto audiovisivo che non riesco a descrivere se non con la formula Herzog + Antonioni + Rocha + Jodorowsky. Si insiste molto su questa architettura “senza spigoli e senza ombre” e su come sia possibile (o impossibile) la vita a Brasilia citando passaggi della scrittrice Clarice Lispector, ascoltando cori di voci bianche che – per quelli che mi sono sembrati dieci minuti buoni in inquadratura fissa – cantano un qualche inno brasiliano, facendosi trascinare da visioni in 4K veicolate da droni, gimbal e rendering 3D. Brasilia è un’utopia, una pista per l’atterraggio degli UFO, il posto dove è nato l’esperanto (assistiamo anche a una lezione di esperanto, toh), il posto dove c’è più cataratta al mondo, dato che l’architettura bianchissima e spoglia riflette all’infinito i raggi UV. Pare che i registi siano andati ogni estate a Brasilia per otto anni (il mio sogno, ripeto) per accaparrarsi il materiale per costruire il documentario. Un sogno/incubo surrealista meglio di un film di fantascienza e – azzardo – forse il film migliore tra quelli visti finora – ma è proprio un altro campionato. #recensioniflash

FRIED BARRY (Ryan Kruger, 2020)

Stamattina non posso cominciare se prima non vi parlo di Fried Barry, visione “after midnight” di stanotte al #TFF38. Fried Barry è l’esordio nel lungometraggio di Ryan Kruger, ed è tratto da un corto omonimo di 3 minuti del 2017: la prima cosa che può venire in mente è che funzionava meglio come cortometraggio. Fried Barry è chiaramente un film insensato e gonfiato di scene slegate tra loro per il puro gusto della provocazione che ha fatto e farà incazzare abbestia moltissimi spettatori (ho in mente un cospicuo numero di amici che – se fossimo andati in sala insieme a vederlo – mi avrebbero aggredito con un “MA COSA CAZZO MI HAI PORTATO A VEDERE”). Eppure, chiariamo ogni dubbio: io con Fried Barry mi sono divertito come non succedeva da anni (beh, oddio, Mandy con Nicholas Cage mi ha dato le stesse vibrazioni, per dire). In questo glorioso filmaccio trucido e psichedelico, introdotto da una sequenza in cui un censore ci spiega perché il film è vietato ai minori di 18 anni e perché in nessun caso dovremmo mostrarlo a un minore, seguiamo Barry “il bruciato”, un eroinomane di Cape Town, Sudafrica mentre vaga per la città, si buca e si cala gli acidi. A un certo punto Barry viene rapito dagli alieni (sequenza indescrivibile con sonde anali, buccali e un catetere alieno nel pisello) e viene rimandato sulla terra come un involucro umano che ospita l’alieno che vuole sperimentare la vita sulla terra. Da lì in poi si spinge sul pedale della follia e del grottesco. Barry (l’attore con una faccia che non si può dimenticare, Gary Green) è ridotto a un “Barry-abito” (cit.) e passa da un rave in discoteca all’ingestione di quantità esagerate di droga, da situazioni di sesso selvaggio a pestaggi, con le parentesi comiche della moglie che lo cerca disperatamente e che trova – non sapendo nulla – che il Barry alieno sia più gentile e amorevole del Barry umano. A un certo punto assistiamo a una scena di body horror estremo (una prostituta che ha fatto sesso con il Barry alieno partorisce lì sui due piedi un clone di lui), poi improvvisamente il film vira sul thriller e il Barry alieno salva un gruppo di bambini rapiti da un non meglio identificato killer pedofilo. Sangue a fiumi, luci assurde, ritmo e stile da videoclip di Aphex Twin, un’ode all’estetica Zef (la sottocultura del “brutto, sporco e cattivo ma con stile” che negli ultimi 10-15 anni va per la maggiore in Sudafrica) che non smette mai un attimo di pompare adrenalina e musica electro-industrial-dubstep-salcazzo. Un film assolutamente inutile, trash, grottesco e sopra le righe. Quindi, un film bellissimo 😃 #recensioniflash

UN SOUPÇON D’AMOUR (Paul Vecchiali, 2020)

Volendo far mostra a me stesso di essere uno spettatore eclettico e onnivoro, ho messo in lista tra le mie visioni del #TFF38 anche Un soupçon d’amour di Paul Vecchiali. Un po’ per il titolo, che è una roba che urla mélo francese da ogni lettera, e un po’ per Paul Vecchiali che secondo me è sempre stato un po’ sottovalutato e insomma adesso che ha novanta anni suonati vuoi non vedere il suo ultimo film? Ecco, vabbè. Magari potevo giocarmela diversamente. Non che sia un brutto film, eh. Però immaginatevi questo. Vecchiali (a suo tempo definito da Truffaut l’unico erede di Jean Renoir) dedica il suo film a Douglas Sirk. Che figata, penso io, aspettandomi inquadrature turgide, schizzi di emozioni represse che scoppiano, scene madri. Ecco, no. Vecchiali dall’alto dei suoi novant’anni è uno di quelli che piazza la cinepresa e la lascia lì. In tutto il film ci sono pochissimi stacchi (anche negli interminabili dialoghi, invece di usare il campo contro campo lui rimane su un attore anche mentre parla l’altro, dando luogo a un effetto di straniamento quasi godardiano). I movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano, e quando ci sono fanno un effetto “Boris” che levati, tipo: [Campo medio] “Ma cosa starà facendo?” – [Zoom a schiaffo sul primo piano del personaggio parlante] “…Non lo so…”. Quindi: un film estremamente statico, di scavo sui primi piani e sui dialoghi, francamente per me un po’ soporifero salvo il plot twist finale che vi rivelerò perché tanto non lo vedrete mai, al TFF non è più disponibile e di certo nessuno lo distribuirà in Italia. QUINDI RAGA SPOILER, NON LEGGETE OLTRE SE VI DA FASTIDIO ANCHE SOLO IL CONCETTO DI SPOILER. La storia è quella di Isabelle, una grandissima attrice di teatro che rinuncia alla parte da protagonista in Andromaca di Racine perché vuole stare accanto al figlio dodicenne Jérome, malato di brutta malattia. Attorno a lei girano tutti quelli della troupe, il regista, il marito primo attore, la sostituta che si scopa (si scopava? si scoperà?) il marito, un prete, una maestra di paese. Isabelle si abbandona al dolore e ai ricordi, le scene sono totalmente slegate tra loro e non si capisce mai se siamo nel presente, in un flashback o nell’immaginazione di lei. A 47 secondi dalla fine del film, la rivelazione: “Isabelle, ma che cazzo dici, nostro figlio è morto da 20 anni”! Parte improvvisamente una immotivata e assordante musica hitchcockiana e Isabelle dice “Ma va’, adesso te lo chiamo: Jéroooome, Jérome vieni qui”! La voce di Jérome dice “Arrivo, mamma!” e il marito di Isabelle fa la faccia basita. Fine. Vabbè, comunque. #recensioniflash

THE OAK ROOM (Cody Calahan, 2020)

The Oak Room, al #TFF38. Sapete quando ci sono quei film che non devi in nessun modo rivelare il finale perché altrimenti si rovina tutto, tipo I soliti sospetti, Seven, Il sesto senso. Ecco, The Oak Room è uno di quelli. Un thriller molto ben costruito ma un po’ poco comprensibile che acquista tutto il suo senso nei due minuti finali. Ovviamente bisogna essere ATTENTISSIMI nei 90 minuti precedenti, altrimenti non si coglie appieno la rivelazione (motivo per cui io – che sono un po’ cecato e facile alla narcolessia – ho dovuto rivederlo due volte per capire bene). Sì perché The Oak Room è un film teatrale, fatto esclusivamente di dialoghi (e di un po’ di azione e splatter nel sottofinale). Dialoghi che vengono portati avanti per il 95% del film in un bar buio, di notte, prossimo alla chiusura. In pratica è già molto se si riesce a vedere il labiale degli attori o a distinguere gli occhi. Tutto fa atmosfera, comunque, e la cosa più interessante è la riflessione metanarrativa sul raccontare storie come merce di scambio e come passaporto per la salvezza. In The Oak Room un ragazzo (RJ Mitte, il figlio di Walter in Breaking Bad) entra in un bar prima della chiusura, si capisce dalle parole che scambia col barista ostile che quest’ultimo era amico del padre ormai morto, e che i due hanno una questione in sospeso. Il ragazzo racconta una storia che si svolge in un altro bar poco lontano da lì, chiamato “The Oak Room”. Il protagonista di questa storia nella storia, ambientata in un altro bar, a un certo punto racconta una storia anche lui. Ma poi anche il barista del primo bar interrompe e racconta una storia, in cui uno dei personaggi improvvisamente racconta una storia. Insomma è tutto un inception di storie clamorosamente slegate tra loro ma che poi sono accomunate da qualcosa di sconvolgente che viene rivelato solo alla fine. Comunque, non abbiate paura della noia: è un film che tiene incollati alla sedia e ha una discreta dose di ultraviolenza concentrata tutta in pochi minuti che placherà i fan delle mazzate e del sangue. Speriamo lo distribuiscano presto, è una vera curiosità. #recensioniflash

EL ELEMENTO ENIGMÀTICO (Alejandro Fadel, 2020) / THE PHILOSOPHY OF HORROR (Péter Lichter, Bori Máté, 2020)

Ultimo spettacolo per il mio #TFF38: è d’uopo qualcosa di assolutamente sperimentale. C’è sempre, al TFF, quella proiezione che ti chiedi “chi cazzo me lo ha fatto fare”, ma alla fine resti lì ipnotizzato. Quest’anno è il caso della doppietta “El elemento enigmàtico” + “The philosophy of horror: a symphony on film theory”. Il primo è un film cileno di 40 minuti che contiene se va bene una cinquantina di inquadrature (fatevi il conto, vuol dire che ogni inquadratura dura 20 o 30 secondi, quando nella norma del cinema contemporaneo un’inquadratura di due o tre secondi ci sembra già interminabile). Queste inquadrature sono quasi tutte immagini fisse e abbaglianti di paesaggi innevati. Dopo una decina di minuti così cominci a notare che nei paesaggi innevati ci sono tre minuscoli omini vestiti tipo astronauti. Dopo un’altra decina di minuti (in cui gli unici suoni sono il vento, la neve e una musica drone/ambient un po’ alienante) gli astronauti iniziano a parlare del concetto di libertà e se la libertà esista veramente. Ma in realtà NON parlano. Leggiamo solo dei sottotitoli colorati (ogni colore corrisponde a uno dei tre astronauti), ma il sonoro è sempre solo vento, sciabolate di musica elettronica e scricchiolii vari. A un certo punto (dopo appunto 40 minuti) gli astronauti in qualche modo si vaporizzano e inizia a piovere. Fine del film. Vaaaaaaa bene.
In realtà io sono qui per “The philosophy of horror”, che è tratto da un saggio di Noel Carroll sull’estetica del cinema di paura, e mi aspetto un documentario sul mio genere preferito. Stolto me! Il film (60 minuti) inizia con una OUVERTURE ORCHESTRALE accompagnata da blob nerastri che sfumano l’uno nell’altro. Poi partono dei brani scritti in piccolo a tutto schermo che riportano parti del libro (a tratti ritornano punteggiando il film come se fossero incipit di capitoli). Il film in sé è la riproposizione di alcuni spezzoni di Nightmare on Elm Street e Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge in cui la pellicola è stata bruciacchiata / dipinta / sfregiata / ricolorata / sbollentata / graffiata. La visione diventa così un’aggressione audiovisiva stroboscopica (anche qui con musica ambient/drone ossessiva a palla per tutti i 60 minuti) in cui vediamo solo facce che urlano, lame che graffiano, facce pressoché irriconoscibili (ma sappiamo che ci sono Heather Langenkamp, John Saxon, Johnny Depp) intervallate da riflessioni sull’emozione della paura. A un certo punto c’è anche un INTERVALLO, nel caso al malcapitato spettatore venga voglia di andare a far pipì o prendersi le patatine. Comunque, ripeto. Non c’è TFF senza un film – in questo caso una doppietta – come questa. Ma forse io non ho più l’età per il cinema sperimentale. #recensioniflash

JAGSHEMASH! SEGUITO DI RECENSIONI FLASH

La nebbia agl’irti colli piovigginando sale, e senza le sue sale urla e biancheggia il cinefilo quarantenato. Abbiamo voluto provarci, ci siano seduti distanti ma niente, nonostante TENET ci hanno chiuso i cinema comunque, ed ecco quindi per ottobre una infornata di titoli visti rigorosamente a casa, con la mascherina, che non si dica che non rispettiamo i DPCM.

LUPIN III – THE FIRST (Takashi Yamazaki, 2019)

Vi volevo dire questo, magari l’avete già visto, magari ce l’avete lì in lista e non osate guardarlo. Allora vi tolgo dall’imbarazzo: Lupin III – The First, il film di Takashi Yamazaki tratto dal celeberrimo manga di Monkey Punch è una cagata pazzesca. Io non mi capacito assolutamente di come una cinematografia abituata da decenni a una produzione animata più che consistente sia così problematica sul piano dell’animazione 3D. Ma non dal punto di vista tecnico, proprio dal punto di vista concettuale. Cercherò di spiegarmi meglio. Sgombriamo intanto il campo dalla trama: Lupin III – The First è una piacevole avventura nel solco di quelle meno cupe e più divertenti del ladro gentiluomo, è ambientato in non meglio definiti anni ’60, una decina (abbondante) di anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nell’antefatto, infatti, un artefatto fabbricato da un archeologo di fama mondiale viente fatto sparire per non farlo prendere dai nazisti cattivi. Si tratta di un diario che Lupin e soci vogliono, ma hanno una rivale: Laetitia, la nipote di un vecchio nazi lo vuole per il nonno. Anche Lupin, in un certo senso, lo vuole per il nonno Arsène, che non era riuscito a rubarlo. Vabbè, tanta azione, tanti inseguimenti, tante faccette, Fujiko che fa il doppio gioco, Jigen con la cicca in bocca, Goemon ossessionato dalla sua spada, Zenigata che si lancia in folli cacce all’uomo (e per un attimo si allea con lo storico rivale). Sulla carta un film abbastanza godibile (per quanto scivola via come un’avventura di Indiana Jones fuori tempo massimo). Ma il problema è l’animazione. Yamazaki aveva fatto miracoli in Doraemon Stand By Me, ma il trucco qui non riesce. Il mondo di Doraemon è antinaturalistico e stilizzato, e il 3D lo rendeva… antinaturalistico e stilizzato ma in 3D. Il mondo immaginato da Monkey Punch è estremamente realistico ma al tempo stesso caricaturale e iperespressivo. Ci troviamo perciò di fronte ai pori della pelle di Lupin, ai riflessi della sua giacca di pelle, al movimento dei suoi capelli e dei suoi basettoni in una impressione di forte realismo ma… con le bocche e gli occhi che sfidano le leggi dell’anatomia deformandosi in smorfie, risate e rotazioni che se nella serie anime originale erano simpatici, qui risultano creepy come un Jonathan Galindo qualsiasi. Per di più, i personaggi che non fanno parte della banda di Lupin (Letitia e i nazi, per dire) stonano. Nel senso che sembrano usciti da UN ALTRO film. Tendenzialmente da quei filmati di pausa tra un livello e un altro di un videogame del 2005. Provate a vederlo, vediamo se l’impressione è la stessa. Io ho dovuto sforzarmi un po’. E non è bello da dire, per un film di Lupin. #recensioniflash

LA TEMPESTA NEL CRANIO (Carlo Campogalliani, 1921)

Oggi vi voglio fare una delle mie #recensioniflash su un film che probabilmente – se non siete accreditati alle Giornate del Cinema Muto – non riuscirete a recuperare tanto facilmente, ma la voglia vorrei farvela venire comunque. Si tratta di La tempesta in un cranio, di Carlo Campogalliani, del 1921. Già un film che si intitola “La tempesta in un cranio” secondo me va visto a prescindere, e comunque Campogalliani in quel periodo usciva con titoli fantastici come “La droga di Satana” che non sfigurerebbero nella filmografia di Rob Zombie. Comunque sia, un po’ di contesto, via. Campogalliani, se non lo sapete, è un regista/attore che ai tempi del muto ha realizzato diversi film della fortunatissima serie di Maciste e ha il merito di aver sposato una delle rare dive del muto torinesi DOC, Letizia Quaranta (coprotagonista anche di questo film, anzi di questa film). Annotatevi anche che secondo Campogalliani “Una film che non voglia dimostrare qualcosa, non ha valore. Il Cinematografo deve essere un messo di propaganda: del bene, della bontà, dell’onestà dei più nobili sentimenti umani e sociali. Deve, insomma, divertendo istruire”. La tempesta in un cranio è infatti un film avventuroso, surreale, comico, modernissimo: non so esattamente cosa insegni, ma lo fa certamente divertendoci un mondo. Renato De Ortis (Campogalliani stesso) è l’ultimo rampollo di una nobile famiglia di pazzi squinternati. Ha paura di impazzire egli stesso e si avvelena la vita nonostante abbia soldi, fortune e l’amore della sua fidanzata Liana (Letizia Quaranta). I suoi amici gli dicono “ma no che non diventi pazzo” ma lui ha le sue ossessioni notturne, i suoi incubi e ad un certo punto BUM! arriva la tempesta nel cranio e lui si risveglia barbone, assume in pratica una nuova identità, non è più il nobile Renato ma un delinquente di mezza tacca, viene messo in prigione però è fortissimo e acrobaticissimo e riesce a fuggire, poi finisce ospite di uno straccivendolo, si innamora di Ada, una popolana guarda caso identica alla sua fidanzata. Il padre di lei è un inventore che sta sperimentando il fototelefonofotografo, in pratica uno smartphone, poi arrivano dei banditi, poi Renato e Ada vengono catturati e legati, si liberano in modi rocamboleschi, tipo anche facendosi aiutare da un simpatico topo di fogna e alla fine… naturalmente era tutto un sogno durato 7 giorni in cui lui ha sempre dormito. Tutti i personaggi che lui ha incontrato nel sogno erano in realtà scienziati e psichiatri a sua disposizione per fargli una specie di shock treatment e guarirlo dalle sue nevrosi. L’amico romanziere, intanto, ha scritto (in 7 giorni) un libro che documenta tutte le folli avventure di Renato.
In tutto ciò Campogalliani lancia continui e ammiccanti sguardi in macchina rompendo la quarta parete che nemmeno Fleabag cento anni dopo, anche se io mi sarei aspettato che oltre alla quarta parete rompesse anche le ossa ai sedicenti amici che non solo gli fanno passare le pene dell’inferno ma per di più ci scrivono su un romanzo e si arricchiscono. Invece finisce tutto a tarallucci e vino. Eppure è una film meravigliosa!

VAMPIRES VS. THE BRONX (Osmany Rodriguez, 2020)

Parliamo di Vampires vs. The Bronx, su Netflix. Se avete in casa un ragazzino tra gli 11 e i 13 anni (dopo no, che si passa direttamente a Carpenter) cui un po’ piace essere moderatamente spaventato, il film è quello giusto. Intendiamoci subito, è una piacevole cazzatina tipicamente Netflix, coi ragazzini in bicicletta che combattono i vampiri nel Bronx (il titolo è estremamente autoesplicativo, un po’ come Snakes on a Plane, per dire). Andiamo subito a spulciare i riferimenti diretti: un po’ Stranger Things, un po’ Ammazzavampiri di Tom Holland, un po’ Ragazzi Perduti di Schumacher, un po’ Blade (direttamente citato con spezzoni nel film), un po’ Buffy, ma ovviamente una spanna sotto tutti. La società di copertura dei vampiri si chiama Murnau Real Estate (perché la “sottile metafora” è che la gentrificazione del Bronx è una piaga paragonabile al vampirismo), il servo umano dei vampiri si chiama Polidori, insomma tante strizzatine d’occhio assolutamente inutili. Prevedibilissimo (ma in un certo senso confortante), praticamente con zero sangue, zero sesso e pochissime parolacce, si salva per l’interpretazione dei giovani protagonisti (che mi hanno ricordato un altro ensemble cast adolescente, quello di On My Block) e ovviamente per l’ambientazione inedita. La scena migliore secondo me è quella della raccolta delle armi pre-combattimento dove i protagonisti costretti dalle nonne a una messa serale irrompono nella sacrestia rubando l’acquasanta con le bottiglie vuote di Sprite. Insomma, ora anche il Bronx ha i suoi succhiasangue, dopo la Brooklyn di Eddie Murphy / Wes Craven e la serie di What We Do in the Shadows a Staten Island. #recensioniflash

CATS (Tom Hooper, 2019)

In questo momento sto un po’ in para, tra il covid e vari cazzi privati, allora per distrarmi vi voglio dire due cose su Cats, una #recensioneflash atipica su quello che è considerato il (o uno dei, via) film più brutti del mondo.
Nulla in contrario al musical di Lloyd Webber, di cui non sono appassionato ma che pratico e conosco da quando son piccino, e insomma ho avuto anche io la mia buona dose di canzoni tra un Memories, un Rum Tum Tugger e un Old Gumbie Cat.
Il film però è veramente un inno alla noia e all’imbarazzo. Noia e imbarazzo si bilanciano così bene che quando stai per addormentarti dalla noia arriva l’imbarazzo a risvegliarti e quando sei profondamente a disagio per quello che si vede sullo schermo la noia ti porta in salvo (ad esempio tutto il pezzo di Taylor Swift me lo sono fumato così, sonnecchiando).
Andiamo avanti con impressioni sparse:
– tutto il trucco e parrucco del film sembra una trasposizione felina dell’effetto speciale alla base del famoso meme di YouTube “Annoying Orange”
– il film è chiaramente un’ode alla sessualità Furry, ci si aspetta sempre che da un momento all’altro i gatti comincino a inchiavardarsi tra loro (“Furry” esiste, non ho controllato prima di scrivere ma sono piuttosto certo che ci sia anche la categoria su Pornhub)
– le proporzioni all’interno delle inquadrature sembrano realizzate da un geometra reso pazzo dalla visione di Cthulhu e dei Grandi Antichi
– L’idea che gli attori siano nudi (pelosi ma nudi) è alla base di grandi momenti di imbarazzo, per esempio quando allargano le gambe a favore di camera o fanno mostra di leccarsi lì: forse era meglio evitare di spingere troppo sul realismo felino.
Poi boh, la scelta di Jennifer Hudson e Jason Derulo per i ruoli di Grizabella e Rum Tum Tugger mi è sembrata anche felice, ma tanto è difficilissimo riconoscerli.
In definitiva, un film che potrebbe popolare i vostri incubi.

OVER THE MOON (Glen Keane, 2020)

Cominciamo col dire che Glen Keane è praticamente Dio. Tra i viventi, il più grande animatore del mondo. Se non lo avete mai sentito nominare, Keane comincia con Bianca e Bernie, attraversa Red e Toby, Taron e la pentola magica, Basil l’Investigatopo e Oliver & Company. Poi diventa responsabile unico del rinascimento Disney concependo La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Pocahontas, Tarzan. Poi si prende una lunga pausa. Nel frattempo lavora con Lasseter prima che la Pixar diventi la Pixar e concepisce il primo incrocio tra CG e animazione tradizionale animando una scena di Where The Wild Things Are di Maurice Sendak (cosa, COSA sarebbe stato fargli fare quel film… ma non c’erano soldi, e Keane si sfoga poi con la scena del ballo nel castello della Bestia). Poi torna trionfalmente nel 2010 con Rapunzel e a seguire chiude con la Disney per divergenze creative. Poi vince un Oscar nel 2017 per il corto animato su Kobe Bryant. E nel 2020 anima, co-produce e dirige Over The Moon su Netflix.
Certo, cosa credevate, era tutta una lunga intro per la #recensioneflash di oggi.
Ora, se Keane è il Dio dell’animazione, Over The Moon dovrebbe essere un capolavoro. Eh. Diciamo che si lascia guardare. Tutto in Over The Moon è perfettamente studiato per essere… uhm… splendidamente perfetto. Si copia dai migliori, si frulla tutto e voilà. Over The Moon è un concentrato ipercinetico di animazione disneyana di primo livello, manga, illustrazione popolare cinese, videogame, pop art, suggestioni Pixar e Ghibli, un’occhio allo stile del multiverso di Spider-Man (produce Sony), un orecchio (e anche qualcosa in più) a Frozen, una colonna sonora che frulla K-Pop e musical hip hop alla Hamilton (la dea della luna Chang’e è Phillipa Soo), buffe creature caramellose, luci, psichedelia. La storia è quella di Fei Fei, bambina orfana di madre che non sopporta di vedere che il padre sta per risposarsi. La mamma le raccontava sempre la storia della dea della luna Chang’e e lei decide di andare sulla luna in un disperato e infantile tentativo di trovare Chang’e e convincere il padre che l’amore è eterno e tutto deve sempre restare uguale. Nel viaggio la accompagna il futuro fratellastro infilatosi a sgamo nel razzo costruito da Fei Fei. (Dimenticavo: tutto si svolge in Cina, la produzione è dello studio Pearl, lo stesso di Abominable). OK, dunque abbiamo il classico viaggio dell’eroe declinato pari pari. Tutta la prima parte del film è visivamente bellissima e l’animazione – manco a dirlo – è stupefacente. Poi i bambini arrivano sulla luna, vengono trasportati da leoni alati nella città di Lunaria e… beh. Proprio dove la fantasia dovrebbe regnare sovrana, ci troviamo in un mondo alla Candy Crush, con richiami a Angry Birds, Ralph Spaccatutto, Frozen (nel senso che c’è un personaggio che praticamente è Olaf e Chang’e ha degli assoli molto Elsa), Up… e con dei momenti invece degni dell’animazione Disney vecchio stampo (tutte le scene con i coniglietti, guarda un po’). I diversi elementi e i diversi stili visivi del film cozzano un po’ tra di loro creando purtroppo l’effetto di un film irrisolto (e poteva invece essere molto di più, poteva arrivare volendo ai livelli di Coco o Inside Out). Over The Moon è più sperimentale in un certo senso, e questa cosa la paga in termini di minor coinvolgimento. Solo verso la fine le cose si calmano un po’, la “lezione” viene imparata, l’eroe torna con l’elisir nel mondo conosciuto e i giochi si chiudono. Ai bambini piacerà moltissimo (e del resto meglio un Over The Moon che mille Angry Birds o Ugly Dolls), ai grandi sembrerà un collage di mille film già visti. Ma animato da Dio.

BORAT SUBSEQUENT MOVIEFILM (Sacha Baron Coen, 2020)

Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigious Bribe to American Regime for Make Benefit Once Glorious Nation of Kazakhstan (di seguito per brevità “Borat 2”) è un film da vedere? Sì. Magari è un po’ fuori tempo massimo? Sì, anche. Per chi già conosce Borat, nulla di nuovo e – sinceramente – nulla di particolarmente sconvolgente. Rifare Borat 14 anni dopo il primo azzeccatissimo film semplicemente non è possibile. Baron Coen mette in scena fin da quasi subito questa impossibilità: la gente lo riconosce per strada e gli grida “Borat, fammi un autografo”. Evidentemente, quindi, il film che si pone come un sequel e che si comporta come un remake/reboot deve essere gestito in modo diverso. Borat diventa un trasformista alla Fregoli, si traveste da professore, da cantante country, usa parrucche e travestimenti improbabili per non farsi riconoscere e lascia spesso e volentieri la scena alla figlia Tutar (Maria Bakalova) in un passaggio di testimone del cringe che è anche un passaggio da una condizione femminile satiricamente subumana a un empowerment sui generis. Ci sono come nel primo film le scene memorabili in cui emergono cose “incredibili” (lo metto tra virgolette perché il 2020 non è il 2006 e ormai diamo per scontato e naturale che la gente sia orgogliosa della propria meschinità, della propria ignoranza, del proprio razzismo e sessismo). La scena del finto aborto, quella della danza della fertilità, quella del discorso sulla masturbazione al convegno delle donne repubblicane sono pezzi di bravura di Maria Bakalova che sfrutta tutti gli assist che le offre Sasha Baron Coen. Anche la sequenza “incriminata” di Rudy Giuliani ci disgusta senza però risultare inaspettata: conosciamo fin troppo bene quel tipo di uomo. Resta il fatto che – appunto – è difficile che Borat 2 riesca a stupire, a indignare, a scioccare. C’è anche una polemica sulla partecipazione di Judith Dim Evans (cui il film è dedicato, dato che è deceduta nel frattempo) che è una sopravvissuta all’Olocausto, una figura un po’ come da noi Liliana Segre, ma è una polemica inutile: è ovvio che Baron Coen non presenta realmente un punto di vista antisemita, anche se qualcuno sembra ancora non capirlo. Tutto sommato l’impressione è stata quella di un film stancamente fuori tempo massimo, con punte di situazionismo e nausea altissimi e un invito finale ad andare a votare che per chi ama Borat immagino sia un’esortazione inutile, ma tant’è. #recensioniflash

PENINSULA (Yeon Sang-Ho, 2020)

È il momento di parlare di Peninsula. Venduto anche come “Train to Busan presents: Peninsula”, il film non è precisamente un seguito del fortunato e geniale film di zombie del 2016. Diciamo che è un action horror che si muove nello stesso universo narrativo. I due film sono molto diversi tra loro. Dove Train to Busan mescolava zombie splatter e melodramma familiare con una inedita attenzione all’approfondimento psicologico dei personaggi, Peninsula sceglie una strada più “sicura” in termini commerciali e ricalca un po’ l’action hollywoodiano. Che non è un male di per sé, intendiamoci, basta saperlo. Yeon Sang-Ho deve aver pensato che non sarebbe riuscito a dare al suo precedente film un seguito “vero” (meglio in questo senso il lungometraggio animato Seoul Station) e ha deciso di fare una virata notevole. Peninsula guarda a Carpenter e a Miller, più che a Romero, ed è un divertimento trovare tutti i riferimenti più o meno espliciti a Fuga da New York, Fuga da Los Angeles, e un po’ a tutta la saga di Mad Max. Vero, in Peninsula la storia conta poco. C’è una missione da compiere in una corea postapocalittica, ci sono orde di zombie coreani (contraddistinti come ormai sappiamo dagli occhi bianchi e dalle articolazioni innaturalmente snodate), ci sono le milizie dei sopravvissuti ancora più pericolose degli zombie. Gang Dong-Won è un ex soldato che deve recuperare un camion pieno di dollari, Lee Jung-Hyun una sopravvissuta tostissima con due figlie assi del volante (le scene di inseguimenti sono tra le più adrenaliniche mai viste). Ovviamente le strade dei due si incroceranno, innescando casini sempre più grossi. Parlato un po’ in inglese, un po’ in coreano, un po’ in mandarino, Peninsula a tratti non sembra nemmeno un film orientale. Sang-Ho si ricorda delle sue origini in certe sequenze di dramma e tensione tirate volutamente per le lunghe (il quasi sacrificio di Lee Jung-Hyun nel prefinale), nella recitazione sopra le righe di quasi tutti i villain, in alcune scene di menare, su tutte la prima discesa nell’arena dei “gladiatori”. Per il resto, oh, avercene di film come Peninsula. #recensioniflash

STO PENSANDO DI FINIRLA IN UN SOCIAL DILEMMA (PER TACER DEL NOLAN)

Ciao, sono Pietro e queste sono le #recensioniflash dell’ultimo mese. In pratica ci stanno dentro tutti i film di cui avete tanto sentito parlare sui soscial (adoro quelli che pronunciano i social “soscial”), quindi , come dire, pochi e sempre i soliti. Ma andiamo senza meno a incominciare. Col botto, come dire.

TENET (Cristopher Nolan, 2020)

Per me – come immagino per molti altri – il ritorno in sala post-Covid (o durante-Covid, non sottilizziamo) significava una tappa quasi obbligatoria: Tenet. E ieri sera si è creata l’occasione.
Apprezzo moltissimo Nolan e le sue riflessioni sul tempo applicate al cinema, ma qui nonostante tutta la buona volontà, il meccanismo mi è sembrato per la prima volta inceppato. A Nolan piacciono i Bond-movie, questo è chiarissimo. A Nolan piace anche ibridare quel genere con la fantascienza hardcore di Interstellar, e questo andrebbe pure bene (gli è riuscito benissimo in Inception, per dire). Qui c’è troppo, o troppo poco.
Abbiamo un uomo (“il Protagonista”, John David Washington) che tiene sulle sue spalle di agente della CIA “rinato” dopo un’operazione-test la salvezza della realtà-come-la-conosciamo e viene assegnato a una misteriosa organizzazione chiamata “Tenet”. Tra Mumbai, Londra, Positano, Oslo e Tallinn è tutta una corsa contro il tempo per fermare una misteriosa “manovra a tenaglia temporale” che qualcuno dal futuro sta facendo con l’aiuto di Sator, un trafficante di armi russo (Kenneth Branagh) che sembra aver scoperto la tecnologia che permette di invertire l’entropia degli oggetti. Insomma, non sto a menarla con la trama, da che mondo è mondo è vero che i film di azione/spionaggio hanno solo bisogno di quello che Hitchcock chiamava il McGuffin, un pretesto anche banale per mettere in moto la storia.
Qui però casca il primo asino. Non so se sia la mancanza del fratello Jonathan alla sceneggiatura, Ma Christopher Nolan è sempre più cerebrale e concede sempre meno allo spettatore. Dai e dai, la corda si spezza. Il McGuffin qui è una teoria scientifica probabilmente avallata da decenni di studio di fisica teorica e quantistica da parte del regista ma che allo spettatore medio arriva come una supercazzola infinita. La scelta di non dare un nome al protagonista (e di chiamarlo appunto “il protagonista”, manco fossimo in un manuale di narratologia) abbinata alle evidenti indicazioni date a Washington di essere il più inespressivo e sottotono possibile (perché in BlacKKKlansman invece usciva fuori molto più potenziale) equivalgono a tirarsi le martellate sui coglioni da solo. Non c’è possibilità di identificazione, la sospensione dell’incredulità è spesso messa a dura prova proprio dagli stessi dialoghi velocissimi e densi di concetti scientifici che alla fine risultano involontariamente comici. L’unico che salva la baracca è Robert Pattinson nel ruolo di Neil (un amico forse di lunga data del protagonista… lo sapremo solo alla fine), che fa un po’ troppe faccette ma chi sto a prendere in giro, è sempre più bravo.
Ovviamente dal punto di vista puramente visivo Nolan mette in scena sullo sfondo della sua amata architettura brutalista una serie di sequenze da antologia: l’aereo cargo che esplode a Oslo, l’inseguimento invertito sulle strade di Tallinn, il bunjee jumping a Mumbai, la corsa coi catamarani nel golfo di Amalfi, lo stesso combattimento finale con squadra rossa e squadra blu che vanno avanti e indietro grazie al passaggio nei tornelli che invertono il tempo (i tornelli, LOL).
Però nemmeno una volta viene da trepidare per la distruzione del mondo, nemmeno una motivazione viene data al cattivo, nemmeno una volta viene di tifare per i buoni, di “tenerci”. Tutto è solo pedissequamente spiegato, poi al limite non è che devi capire, devi “sentire”. E quindi niente: bei paesaggi, fantastiche sequenze girate “all’indietro”, però ti prego Nolan, fai pace con tuo fratello e scendi di qualche migliaio di metri dall’iperuranio dove ti sei ficcato. #recensioniflash

BLACK IS KING (Beyoncé Knowles, 2020)

Avete visto Black Is King, il film di Beyoncé su Disney+? Ci sono alcuni buoni motivi per vederlo. Il primo motivo è scontato, ma è lei: Queen Bey. Difficilmente riuscirà a superare questo picco come artista multimediale dopo che è già stata – solo negli ultimi 10 anni – madre universale, attivista, femminista, divinità, donna turbocapitalista oltre che icona pop. Già Lemonade era una bella esperienza, ma qui siamo su un altro livello. Black Is King è la visualizzazione dell’album musicale dell’anno scorso che a sua volta era un tributo all’ultima versione di Lion King che a sua volta io non ho visto perché in generale schifo come la morte nera i remake “live action” della Disney. Comunque, la traccia narrativa del Re Leone è più che altro uno spunto per raccontare la storia di un principe nero umano e del suo viaggio alla scoperta di sé. Ma Black Is King non è un film narrativo. Invece è un curioso mix tra videoclip di un’ora e mezza, documentario naturalistico, cinema di poesia in un guazzabuglio affascinante che è stato il progetto del cuore di Beyoncé per tutto il 2019. La musica è ovviamente molto influenzata dall’afrobeat e da tutti i musicisti nigeriani, camerunensi, ghanesi etc. che partecipano al progetto. L’apparato visuale è un caleidoscopio di outfit eccezionali, afrofuturismo alla Wakanda e soprattutto tanta, tanta danza afro. Il che mi ha fatto venire in mente quell’anno che ho fatto danza afro e all’ennesima lezione in cui mi stava scoppiando il cuore mi è uscito il sangue dal naso spruzzando goccioline rosse sul resto della cumpa danzante. Comunque. La danza afro non fa per me se la faccio io, ma vederla è sempre bello. Black Is King. Segnatevelo. O se no fate come volete, ma poi Beyoncé vi viene a prendere a casa e vi sculaccia. #recensioniflash

THE KING OF STATEN ISLAND (Judd Apatow, 2020)

The King of Staten Island è un altro di quei film che hanno – diciamo così – risentito del Covid. Ma è l’ultimo film di Judd Apatow, che io amo, a cinque anni da Trainwreck. E rischia di essere il suo film più bello – se la gioca con Funny People. Siamo sullo stesso territorio, commedia fiume sui generis (dura due ore e venti), accumulo di scene che potrebbero far ridere ma che hanno un fondo amarissimo, dialoghi lungi, quasi estenuanti, ma veri e scritti da dio. Apatow ha scritto il film con Pete Davidson, star di SNL e protagonista del film. Il film si basa in gran parte sulle esperienze reali di Davidson, che ha perso il padre l’11 settembre 2001. In pratica il protagonista Scott è il classico uomo-Apatow, un adulto rimasto allo stadio preadolescenziale, uno scoppiato pieno di tatuaggi che vive con la madre (Marisa Tomei, eccezionale) e non combina un cazzo se non fumare nello scantinato con i suoi amici, di tanto in tanto scopare con un’amica che frequenta dai tempi delle elementari, parlare della sua geniale idea di un ristorante con annesso studio di tatuaggi. La sorella parte per il college, lui in uno dei suoi momenti di cazzeggio finisce “quasi” per fare un tatuaggio a un ragazzino del posto, il padre del bambino bussa incazzato nero alla porta di casa, poi però si innamora della madre di Scott e parte un giro di relazioni e di scazzi alcuni pesanti, altri semplicemente esilaranti. Quello a cui assistiamo, come in tutte le storie che si rispettino, è la caduta nell’abisso e la risalita di Scott, che sembra non farsi toccare dai problemi della vita ma in realtà semplicemente ha dei problemi mentali e non sa come esprimere il suo disagio. Come tutti i film di Apatow richiede una certa resistenza, ed è come assistere ad una lunga seduta di terapia, ma la bravura e la sincerità di Davidson vincono tutto. Da citare anche Bill Burr e Pamela Adlon nei ruoli di Ray, il nuovo fidanzato della mamma e la sua ex moglie. C’è anche un piccolo ma significativo ruolo per Steve Buscemi. Insomma, si ride e si piange… si ringe, come direbbe Alessandro Apreda. Sono contento di averlo visto, lo consiglio per questa estate di merda. #recensioniflash

WEATHERING WITH YOU (Makoto Shinkai, 2019)

Ultimi giorni di vacanza, tempo di recuperoni. Weathering With You di Makoto Shinkai, era da circa un anno che lo bramavo intensamente. Posto che gli pesa un po’ sulle spalle il confronto con un successo planetario come Your Name, Weathering With You ha dalla sua una trama un filo più lineare, che mescola shintoismo, fantasy, noir e dramma sociale. C’è Hodaka, sedicenne in fuga dalla “soffocante” isola di Kozu-shima che approda a Tokyo in cerca di un lavoro per restare a galla, viene coinvolto nel ritrovamento di una pistola (la sottotrama poliziesca), trova lavoro come giornalista per un periodico di misteri e leggende urbane, infine incappa in Hina, la “sunshine girl” che con la forza della preghiera può fermare la pioggia che cade incessante sul Giappone. Hina a sua volta ha acquisito questo potere dopo essere rimasta orfana: vive in un appartamentino con il fratello minore. Insieme i tre escogitano un redditizio business “scaccia pioggia”, ma tutto questo uso dei poteri ha un prezzo molto alto da pagare. Weathering With You, come è facilmente comprensibile fin dalle prime inquadrature, è un film liquido. In ogni singola inquadratura c’è acqua, gocce, pozzanghere, fiumi, temporali, vapore, neve. Come sempre Shinkai è un maestro assoluto nel rappresentare la Tokyo contemporanea in anime, regalando scorci urbani di grandissima potenza visiva. La storia dei ragazzi senza tutore ricorda molto anche certo Kore’eda (ma per fortuna con esiti meno drammatici). I RADWIMPS (la rock band giapponese che già aveva musicato Your Name) tornano con le power ballad che ormai ci aspettiamo in ogni film di Shinkai. Persino Mitsuha e Taki (i protagonisti di Your Name) hanno un cameo in questo nuovo film, il cui unico difetto, se vogliamo, è appunto quello di essere una spanna sotto il predecessore. Per gli amanti dell’azione, però, c’è un lungo inseguimento su un Honda Super Cub (motorino mitologico) che fa girar la testa da quanto è animato bene. Cercatelo, vedetelo, amatelo. #recensioniflash

BILL AND TED FACE THE MUSIC (Dean Parisot, 2020)

È passato un po’ di tempo dalle ultime #recensioniflash, che dite? Allora, oggi vi intrattengo con un altro film molto atteso, che al pubblico italiano dirà probabilmente poco e nulla ma che per chi aveva 20 anni nel 1990 è qualcosa. Bill & Ted Face the Music è praticamente la riproposizione degli iconici personaggi di Keanu Reeves e Alex Winter 30 anni dopo, ma sempre storditi uguale. Se Bill e Ted vi dicono poco, pensate a Beavis e Butthead ma più ingenui, oppure pensate a Wayne e Garth di Wayne’s World, o ai Tenacious D, ma più stupidi. C’è tutta una tradizione di commedie hard rock / stoner che parte proprio da Bill & Ted Excellent Adventure, il primo film della serie (1989). Keanu Reeves doveva ancora spaccare col suo primo ruolo importante in Point Break (ma aveva già fatto un bel po’ di filmetti dimenticabili, più Le Relazioni Pericolose di Frears). Alex Winter aveva una parte nei Lost Boys di Schumacher, poi boh. Il primo film è una summa del film liceale anni ’80, tra hard rock e compiti di storia risolti viaggiando nel tempo. Il secondo (sì, c’è anche un secondo film, con colonna sonora di Slayer, Megadeth, Primus, Faith No More) vede Bill e Ted sconfitti da una versione robot di loro stessi andare all’inferno e sfidare la morte. Questo nuovo film – evidentemente un tributo di Reeves e Winter al ruolo che li ha lanciati – è ancora più assurdo, non sto a raccontare la trama che è al tempo stesso un casino senza senso e una banalità terrificante (in pratica un episodio di Scooby Doo stiracchiato per 90 minuti), ma è bello sorridere ancora per le svisate in air guitar, il linguaggio del corpo di Bill e Ted sempre uguale, la colonna sonora dirompente. A un certo punto nella stessa inquadratura abbiamo Bill e Ted, le loro figlie uguali a loro, la Morte, Mozart, Jimi Hendrix, Louis Armstrong e Kid Cudi. Ah, e un robot che sembra un incrocio tra il T-1000 e il Mr. Freeze di Schwarzenegger. Bill e Ted per tutto il film difficilmente dicono qualcosa più di “Duuuude”, “Totally” o “Yeah”. Agli effetti speciali Kevin Yagher che ha fatto un lavoro eccellente nella versione 90enne di Bill e Ted (ovviamente viaggiano nel tempo *e* all’inferno anche in questo episodio). Conviene aspettare la super scena “col volume a 11” dopo i titoli di coda. E a un dato momento appare anche Dave Grohl. Mi pare di aver detto tutto, traetene le vostre conclusioni.

I’M THINKING OF ENDING THINGS (Charlie Kaufman, 2020)

Ho finalmente concluso la visione di I’m Thinking of Ending Things, il nuovo film di Charlie Kaufman. Perché dico finalmente? Ci sono volute tre sere, una notevole attenzione e diverse re-visioni di alcune scene. Mai nessun film come questo beneficia veramente della distribuzione in streaming dove – vivaddio – appena finito il film si può andare a rivedere una determinata sequenza per capire se si era compreso bene il senso. Perché un senso c’è, anche se non sembra (ed è il tipico senso di Kaufman per le storie cerebrali). Guardando il film vengono in mente sequenze di Lynch e Aronofsky, inevitabile quando si spinge sul pedale dell’onirico. Non farò spoiler, racconterò solo le linee principali della trama: ci sono un lui e una lei (Jesse Plemons e Jessie Buckley) che per circa la prima mezz’ora di film viaggiano in macchina sotto la neve per andare a trovare i genitori di lui (lei però vorrebbe mollarlo). Lei monologa interiormente, lui parla di diverse cose (e intanto sembra quasi che colga i pensieri di lei). Nel frattempo vediamo ogni tanto un vecchio bidello nell’esercizio delle sue funzioni. Poi c’è una lunga sequenza che sembra trasformare il tutto in un incubo alla Aronofsky, appunto: la visita alla fattoria e alla casa di campagna dei genitori di lui (bravissimi Toni Collette e David Thewlis) in cui la realtà spazio temporale sembra disgregarsi senza alcun motivo apparente e ci sono inquietanti accenni di horror tipo scantinati con porte graffiate, messaggi apparentemente dall’aldilà, etc. Poi si torna in macchina per il viaggio di ritorno a casa, e qui parte il momento super-lynchiano con la strada di notte, i fari, un dialogo di mezz’ora in cui vengono citati pari pari stralci di una recensione di Una moglie di Cassavetes, disquisizioni su David Foster Wallace, una sosta a una gelateria che mette i brividi, per arrivare poi al gran finale nel vecchio liceo di lui dove i nodi vengono al pettine in un misto di piani di realtà differenti, balletto, musical, citazionismo, metacinematografia, sequenze animate e titoli di coda che sono una sfida ai miopi. I’m Thinking of Ending Things – ve lo dico – è uno di quei film che dopo averlo visto vi precipitate su Internet a cercare le spiegazioni di questa o quella scena – soprattutto del finale. Anche se, a dire il vero, è sufficiente guardarlo un paio di volte (due e mezza, via) per capire bene che cosa Kaufman ha voluto raccontarci. La cosa sorprendente è che poteva essere uno di quei film con il colpo di scena – ribaltone finale alla Usual Suspects, solo che Kaufman se ne sbatte dei colpi di scena e procede come in una narrazione liquida, immota, in cui sei tu che devi nuotarci dentro per capire. Particolarmente utile, in una certa sequenza a casa dei genitori di lui, andare avanti a botte di fermo immagine per scoprire tutti gli indizi che aiutano a capire il finale. In due parole, un film che ti lascia di merda. Ma in senso buono, eh. Guardatelo. #recensioniflash

MIGNONNES (Maimouna Doucoure, 2020)

Mignonnes, su Netflix. Come posso cominciare… vedetelo. Fatelo entrare nella top 10 dei film più visti. Se lo merita. Parliamo del film, il merdone teniamocelo per dopo. Mignonnes è il primo lungometraggio di Maimouna Doucoure. Una regista donna e nera che scrive e dirige il suo film in un mondo dominato da maschi bianchi. Doucoure, di origine senegalese, racconta storie che pescano dalla sua infanzia e dai racconti di centinaia di preadolescenti che ha intervistato per un anno e mezzo prima di scrivere e realizzare il film. La sua protagonista, Amy, è una undicenne che vive in una banlieue parigina, più o meno abbandonata a sé stessa (il padre è in Senegal a procurarsi una seconda moglie, la madre lavora e non ha molto tempo per i figli). Amy vive un conflitto tra la cultura del suo paese di origine e quello che vede a scuola, in particolare osservando un gruppo di coetanee ossessionate dalla danza che si fa chiamare le Mignonnes (le piccoline, in francese). Amy vuole farsi accettare da Angelica, Jess, Coumba e Yasmine, vorrebbe ballare con loro. Tutto il film mette in scena in maniera magistrale la tensione tra due modi diversi di intendere il femminile, filtrati attraverso lo sguardo di una bambina che sta per diventare una donna ma non sa ancora che tipo di donna e non ha nessuno strumento critico per scegliere. Alle preghiere musulmane si annoia, ruba un cellulare, va in fissa per il twerking, convince le compagne a fare balletti sempre più provocanti. Nella scena più cringe del film si fa una foto estremamente inappropriata e la pubblica on line. Infine, al tanto agognato concorso di danza, si trasforma in una sorta di Nicki Minaj in sedicesimo e guida le compagne in un balletto sessualmente esasperato, goffamente provocante, decisamente imbarazzante. Doucoure non indugia mai un secondo di troppo sugli aspetti di sessualizzazione – a me il film è sembrato sobrio e anche commovente per quanto riguarda la deriva esistenziale della protagonista. Ci sono dei momenti di pura poesia (vestiti che sembrano animarsi da soli, presenze fantasmatiche) e momenti di sincerità assoluta (le dinamiche tra le amiche / rivali, i pestaggi nel cortile della scuola, le confessioni, il desiderio di non essere considerate bambine che porta a scelte sbagliatissime). E veniamo al merdone. Questo film – che peraltro ha vinto ben due premi al Sundance Festival – è stato pubblicizzato da Netflix con una locandina sicuramente un po’ trash, che lo equiparava a quei film tipo Step Up (da cui Mignonnes evidentemente mutua la struttura del racconto) ma con le ballerine preadolescenti in pose zoccoleggianti. Quella scena nel film c’è, ma contestualizzata nella visione, è evidente che si tratta di una scelta azzardata di un gruppo di bambine convinte che quel tipo di atteggiamento sia quello “giusto” da mostrare per fare strada. Vabbè, comunque da quel poster l’uragano di #CancelNetflix che una serie di politici repubblicani ha lanciato su Twitter (sorpresa, però: c’è dentro anche la democrat Tulsi Gabbard, da lei non me lo aspettavo). A dimostrazione del fatto che questi non hanno nemmeno visto il film, hanno visto la locandina (ora cambiata) e le due righe di riassunto di Netflix (che come tutti sanno sono capaci di riassumere Il Padrino con una frase tipo “Al matrimonio di Connie le cose non vanno per il verso giusto: le famiglie si scontrano”). Invece Mignonnes è una piccola grande sorpresa, anche se ha un finalone simbolico un po’ spiattellato che mi ha fatto storcere il naso – ma mi direte poi voi. #recensioniflash

THE SOCIAL DILEMMA (Jeff Orlowski, 2020)

Siete comodi comodi? Adesso vi spiego perché The Social Dilemma, il documentario su Netflix di cui state tanto sentendo parlare è una cagata. (Oh, avete ragione, è liberatorio cominciare i post con un giudizio così tranchant, avremo tempo dopo per le sfumature. Che figo).
No, dai, a parte gli scherzi. The Social Dilemma è un documentario interessante a metà, riuscito a metà, inserito in un contesto che per sua natura lo depotenzia (in sintesi, una cag… ahahah, no dai).
Ci sono alcune persone serie, molto competenti dato che hanno lavorato direttamente su algoritmi, politiche di monetizzazione, software engineering e quant’altro di Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, YouTube e compagnia bella. Queste persone vengono intervistate ed evidenziano luci ed ombre (ma più che altro ombre) relative al funzionamento dei social “dietro le quinte”, qualcosa che di certo uno che lavora nel campo sa benissimo, ma che probabilmente la gran parte degli utilizzatori dei social magari ancora non sa. Si dicono delle cose interessanti e sacrosante (una su tutte, ad esempio, non è che i social “rubano i nostri dati”, ci fanno la birra con i dati, ma rubano la nostra attenzione e i nostri comportamenti per costruire modelli predittivi che alla lunga ci bloccano in un cortocircuito cognitivo in cui anche una fake news ben piazzata diventa difficile da distinguere e… ma vabbè, non voglio entrare nel merito, ve lo vedrete, vorrei parlare solo del film).
Se The Social Dilemma si limitasse a questo sarebbe un ottimo speciale di un’ora, allarmante, che spiega cose, che mette in guardia. Ma no. The Social Dilemma decide di montare le interviste con degli intermezzi di docufiction TERRIFICANTI (peccato per Skyler Gisondo, già visto in Santa Clarita Diet che non è nemmeno male) in cui si mostra la famiglia Brambill… cioè, la famiglia Smith alle prese con il tentacolare mondo dei social e degli smartphone cattivi. Le bestemmie volano alte durante la visione, e vi assicuro che non sto esagerando. La sensazione è quella di vedere delle sequenze di Ralph Spacca Internet girate in live action, con tanto di sottofinale politico/apocalittico/distopico.
L’altra cosa che rovina The Social Dilemma (più che altro che fa un po’ ridere) è il contesto di visione, nel palinsesto di Netflix (che produce, anche). Non si può non riconoscere che anche Netflix stesso fa parte di quei “giganti tech” il cui unico obiettivo è di apprendere dai tuoi comportamenti per alimentare la sua IA. Alla fine tutto sembra una scaramuccia del tipo Mark Zuckerberg cattivo, Reed Hastings bravone.
(Peraltro un po’ come me che sto postando una recensione di The Social Dilemma su Facebook… ladidà, ladidà).
Bah, comunque vedetelo andando avanti veloce sulle parti della famiglia Smith e magari scoprite qualcosa di interessante che non sapevate. Sapevatelo! #recensioniflash

ENOLA HOLMES (Harry Bradbeer, 2020)

È sempre la solita storia / ma è un po’ anche un’altra storia.
Questo in sintesi l’approccio di molti produttori di contenuti di intrattenimento. Sempre più di frequente i produttori (che ricordiamolo, ci mettono il cash) hanno bisogno di partire da qualcosa di ben noto per ricamarci su e proporre qualcosa di (parzialmente) inedito. In questo modo vai a solleticare una fanbase già presente o comunque un effetto nostalgia per mettere un piede nella porta, e poi provi a calare il tuo asso nella manica. Questo meccanismo (che per esempio è alla base di molte delle produzioni Netflix) l’ho visto lampante in un film che ho guardato ieri e che ho trovato illuminante in tal senso. Enola Holmes, ovvero un intrattenimento abbastanza onesto per ragazzi che strizza l’occhio in modo molto vago ai fan di Sherlock Holmes e prova a rimpinguarne l’immaginario inserendo nella lista dei personaggi una ipotetica sorella minore. Quindi: dato uno Sherlock Holmes, cosa succederebbe se… ci fosse un altro personaggio a lui legato che voi non conoscete e di cui noi vi raccontiamo la storia parallela? Abbastanza innocuo, con una bella prova di Millie Bobby Brown (che però mi ha fatto andare a guglare se per caso, dopo Fleabag, ci fosse una legge non scritta che obbliga le protagoniste femminili londinesi a rivolgersi ammiccando allo spettatore ogni 1,8 minuti) e una trama non idiota per quanto a misura di adolescente. Sherlock, come è giusto che sia, sta molto sullo sfondo (e comunque Henry Cavill, LOL) e c’è un giusto quid di tensione, mistero e azione (che però mi ha fatto pensare che forse adesso dovrei rivedere “Piramide di paura” e fare un confronto di massima). PS: ho comunque scoperto dopo che il regista è lo stesso di Fleabag, solo che Millie Bobby Brown non è Phoebe Waller Bridge… #recensioniflash