LA PANDEMIA E LE #RECENSIONIFLASH

Sorbole, sapete cosa ha combinato questo nuovo Coronavirus che non avevo messo in conto? Mi ha fatto dimenticare tre mesi di #recensioniflash! Beh, certo, mi ha anche fatto prendere il coraggio di mostrare il mio faccione su Facebook Live (e a seguire su YouTube) per parlarvi del grande e onusto cinema “di una volta”, ma le mie incursioni nel noir, nel mélo e nel musical hollywoodiano tra gli anni ’30 e gli anni ’60 non possono sostituire l’arguzia delle recensioni sui film, filmoni e filmacci del momento. Poi mi ha contattato anche Gabriele Niola che all’inizio pensavo “ma figurati sarà uno scherzo” e invece cercava seriamente le #recensioniflash, e allora eccole, le #recensioniflash, perdio, pandemia edition!

THE COLOR OUT OF SPACE (Richard Stanley, 2019)
The Color Out of Space, il film sponsorizzato da Pantone. Ha ha. No, a parte gli scherzi. C’è HP Lovecraft e c’è Richard Stanley, il regista misterioso che non fa film dal 1990, anno in cui è uscito Hardware che è un culto assoluto che non si può non aver visto, solo che dopo aver fatto Hardware impazzisce, va nel deserto della Namibia, gira un videoclippone per i Marillion e poi si dà al documentario. Fino ad oggi. E potete immaginare quante idee filmiche ha in serbo per noi. Lovecraft, si sa, è abbastanza infilmabile. Il colore venuto dallo spazio, poi, è uno dei racconti più ostici. Ma questo film ha un asset fortissimo. Nicholas Cage che sbrocca. Tutti vogliamo vedere Nicholas Cage che sbrocca, non ne abbiamo mai abbastanza. L’altro asset sono gli alpaca. Che ben presto diventano orribili alpaca mutanti. Vabbè, comunque: Nicholas Cage che munge gli alpaca, Nicholas Cage che sbrocca in macchina, Nicholas Cage che va fuori di testa con la doppietta in mano, e sangue, tantissimo sangue. Il colore venuto dallo spazio, siccome non si poteva non farlo vedere, è un tono di fucsia molto fluo e molto appiccicoso, che contamina acqua, vegetazione, animali e alla fine anche la povera famiglia di Nicholas Cage, che si ritrova circondato da un tripudio di body horror che prende il meglio dalla grande tradizione di John Carpenter, Stuart Gordon e Brian Yuzna, aggiungendo al tutto un bel tono di rosa shocking. Psichedelia a pacchi (non tanta quanto in Mandy, ma insomma, siamo lì), effetti visivi al limite dell’epilessia (dello spettatore, intendo), gente che muore malissimo, e verso la fine il momento puramente lovecraftiano delle geometrie impossibili e delle visioni di mondi alieni che in fondo in fondo tutti si aspettano. Se ascoltate me, sono due ore spese bene, anche perché spiegatemi chi non vorrebbe vedere un film con Nicholas Cage e un gruppo di alpaca. Nessuno, infatti. #recensioniflash

GUNS AKIMBO (Jason Lei Howden, 2019)
Sento come il dovere morale di parlarvi di Guns Akimbo, uno di quei film che metà dei miei contatti liquiderà con un “ma come cazzo fai a vedere certe cose” e l’altra metà celebrerà con un “fuck yeah, pistoloni, sangue a litri e musica techno a palla”. Io mi pongo nel mezzo, essendo un raffinato intellettuale della settima arte con un penchant mai troppo nascosto per i film di menare. Inizierò col dirvi di Daniel Radcliffe (in foto), attore che tanto disprezzavo ai tempi di Harry Potter quanto ho amato alla follia dopo. Lui ha talento nello scegliere i ruoli più assurdi (un po’ come Elijah Wood post-Frodo): lo abbiamo amato nel ruolo del cadavere scoreggiante in Swiss Army Man e lo adoriamo ancora di più in questo piccolo grande b-movie neozelandese in cui interpreta Miles, un nerd vegano e nonviolento che viene coinvolto suo malgrado in un gioco mortale in cui ci si deve ammazzare a vicenda per il plauso del popolo bue che fa le scommesse on line. Siccome lui fa il cacciatore di troll sui social, in pratica i troll gli arrivano in casa e gli imbullonano dei pistoloni alle mani, da cui le continue gag sul fatto che non riesce a mangiare, pisciare, spippolare il cellulare (le tre cose fondamentali della vita di un uomo nel 2020, diciamolo). L’altro grande asset del film è Samara Weaving nel ruolo della pazza schizzata che spacca i culi (ruolo in cui è assolutamente perfetta): la apprezziamo già dalla sequenza pre-titoli in cui fa un bodycount esagerato mentre spara lama schiaccia e arrota gente sulle note di You Spin Me Round dei Dead or Alive (primi 4 minuti che sono già un selling point definitivo per il film, poi dopo entra in scena Radcliffe). Vabbè, che altro dire: cattivissimo tatuatissimo e sopra le righe, umorismo alla action movie anni ’80, violenza grafica portata all’estremo, blanda critica al mondo dell’online gaming, cinepresa che fa del roteare continuamente la sua cifra stilistica principale (è come vedere un film chiusi dentro una di quelle palle trasparenti che rotolano con te fissato dentro), colonna sonora che punteggia il tappeto sonoro electro con hit anni ’80 tra le più appiccicose del decennio. In una parola, meraviglioso. #recensioniflash

EL HOYO (Galder Gatzelu-Urrutia, 2019)
Volevo un attimo tornare al format delle #recensioniflash per parlarvi dei film più adatto a questo periodi di clausura forzata che ho visto su Netflix (peraltro volevo già vederlo al TFF lo scorso novembre ma me lo ero perso). Il buco, del regista credo basco Galder Gatzelu Urrutia, è uno di quegli oggetti filmici strani, che mescolano horror e fantascienza distopica in un metaforone di grana grossa sulle storture del capitalismo. C’è questo carcere verticale, immaginatevi un pozzo senza fondo, costruito a livelli. Al livello zero (piano terra) c’è uno chef che prepara ogni sorta di prelibatezza e la apparecchia su una piattaforma tipo ascensore che poi va giù per centinaia di livelli sotterranei. I carcerati (due per livello) che stanno ai livelli più alti si strafocano di roba e lasciano ai carcerati dei livelli più bassi miseri avanzi, casomai sputati o rigurgitati. Ovviamente ai livelli sotto il cinquantesimo non arriva più nulla per cui quei detenuti si danno allegramente al cannibalismo e ad ogni sorta di efferatezza. Di più: ogni mese i detenuti cambiano di livello, magari un mese sono al livello 7 e il mese dopo al 230, subendo trattamenti diversissimi a seconda della “classe” in cui si ritrovano. In tutto questo contesto delirante, Goreng, l’eroe del film che si porta dietro una copia di Don Quixote (wink wink), tenta di sovvertire il sistema. Non ho detto che ogni detenuto si può portare nel Buco solo un oggetto. Goreng ha il suo libro. Il suo compagno di cella ha un coltellaccio tipo Miracle Blade. E quando l’uomo col libro incontra l’uomo col coltello, immaginatevi come può andare a finire. Disgustoso, visionario, sopra le righe come quasi tutti gli horror spagnoli, Il Buco ha il “vizio” di essere allegorico in modo forse un po’ troppo didascalico. Magari non è per tutti i gusti. Però intrattiene.

POM POKO (Isao Takahata, 1994)
Nella quarantena esistenziale di questi giorni, occorre scegliere accuratamente film che possano andar bene per tutta la famiglia. Quindi, siccome con lo Studio Ghibli si va sempre sul sicuro e siccome ho qualche piccola lacuna (prevalentemente a proposito di Takahata, ché di Miyazaki ho visto tutto), decido di vedere per la prima volta Pom Poko. Con la Creatura. Ora, a parte che questo potrebbe essere l’unico film Ghibli dove l’adattamento di Cannarsi ci sta tutto (i procioni del film e in particolare il procione narratore usano un registro “burocratese/sindacalistico” per dare un effetto comico che comunque i bambini non capiscono), ci sono alcune cose fantastiche. La prima è che tutti i procioni del film hanno i testicoli ben in evidenza in ogni inquadratura (favorisco foto). La seconda è che i procioni del film usano i suddetti testicoli come armi, gonfiandoli e teabaggando gli operai dei cantieri edili e gli sbirri (Pom Poko è un film ferocemente ambientalista e anti speculazione edilizia in cui si professa lo sterminio degli umani e delle loro ruspe). La terza è che per concentrarsi sulla lotta armata ai procioni del film viene intimata la castità e la non procreazione, ma verso la metà del film i testicoli del procione protagonista vengono messi a dura prova da una procace prociona, sicché i due si rotolano nell’erba gemendo e nella scena dopo hanno quattro cuccioli (la legittima domanda della Creatura “come hanno fatto a fare quattro cuccioli?” era inevitabile). Poi vale tutto per una scena di 10-15 minuti che è un tripudio di yokai grotteschi e bellissimi, che ho dovuto mandare indietro cinque volte per soddisfare la brama della Creatura. Per la cronaca, ci sono anche diversi procioni morti spiaccicati da ruote di camion e alcuni altri morti sparati dagli sbirri. Un grande classico per famiglie, insomma. Ora possiamo passare a Una tomba per le lucciole. #recensioniflash

KNIVES OUT (Rian Johnson, 2019)
File under category “i bei film di una volta”. Knives Out è essenzialmente un film di Poirot preso di peso e trasportato nella contemporaneità. Un oggetto abbastanza alieno nel cinema del nuovo millennio: non è un remake un reboot un prequel un sequel una retcon un franchise. Ma soprattutto: è un film americano dal vago sapore europeo, un po’ rétro. C’è il superdetective messo lì quasi per caso, c’è il poliziotto “spalla”, c’è il morto e tutta la famiglia di sospettati. Unica variante, a metà si scopre l’assassino e il resto del film diventa meno whodunit e più suspence. La commedia (anche un po’ sopra le righe) è sempre dietro l’angolo, ci sono Jamie Lee Curtis, Toni Collette, Don Johnson, Chris Evans, Michael Shannon. Ognuno ovviamente ha qualcosa da nascondere. Prevedibile ma simpatico, un po’ come una lunga partita a Cluedo, il film è di Rian Johnson. Del quale io fondamentalmente mi chiedo: ma come gli è potuto anche solo venire in mente di affidargli uno Star Wars? Intendiamoci, dell’ultima trilogia Gli ultimi Jedi è il mio preferito, ma… alla Disney devono essere un po’ pazzi. Vabbè, comunque tornando a Knives Out chiuderei così: è uno dei rarissimi film uscito dopo il 2000 che potrebbe piacere a mia madre. #recensioniflash

BOOKSMART (Olivia Wilde, 2019)
Proprio oggi la mia amica Gaia è uscita con un pezzo su Cosmo riguardo ai migliori film di registe usciti negli ultimi anni. Proprio in questi giorni volevo vedere Booksmart e insomma ho fatto due più due e vi posso dire che l’esordio dietro la macchina da presa di Olivia Wilde è decisamente esilarante. OK, è la solita commedia ambientata nel graduation day della solita high school nella solita L.A., ma prima cosa c’è Beanie Feldstein che si mangia ogni scena (è la sorella di Jonah Hill, e ha la sua stessa forza, quindi è praticamente inevitabile); seconda cosa c’è un umorismo al femminile che mi ha ricordato parecchio Bridesmaids nonostante quello fosse un film diretto da un uomo (ma che uomo, Paul Feig). Le “booksmart”, le secchione, sono le due ragazze nerd che non hanno mai fatto festa perché troppo impegnate ad assicurarsi il college “giusto”, ma la sera prima del diploma vogliono concentrare tutto il sesso, la droga e il rock’n’roll che non hanno mai sperimentato prima. Con risultati ovviamente molto cringe. Il film passa decisamente il test di Bechdel (1. devono esserci almeno due donne che 2. parlino tra di loro di qualsiasi argomento che 3. non riguardi un uomo). Il corrispettivo televisivo di questo film potrebbe essere la serie Pen15 di cui vi ho parlato recentemente. Stesso livello di estrogeni, sesso e situazioni cringe. Interessante. #recensioniflash

THE WILLOUGHBYS (Kris Pearn, 2020)
Nel caso non sappiate cosa fare, vi segnalo che è uscito su Netflix un altro piccolo gioiellino di animazione, prodotto (e anche interpretato) nientepopodimeno che da Ricky Gervais. Tratto da un libro illustrato di Lois Lowry e diretto da Kris Pearn (che arriva dal team di Piovono Polpette), La famiglia Willoughby è consigliatissimo. Sempre se ai vostri bimbi piacciono le storie spiazzanti e un po’ scorrette. I quattro fratellini Willoughby vivono nella casa avita un po’ “fuori dal tempo” (diciamo che sono fermi al 1919) con due genitori egoisti, anaffettivi e totalmente sordi alle “esigenze bambinesche”. Ben presto capiscono che la cosa migliore è disfarsene, attirandoli in una vacanza avventurosa (e letale) in cui “i bambini non sono ammessi”. I Willoughby rimangono così “tecnicamente orfani”, ma i genitori prima di partire avevano chiamato una tata… da qui partono molte avventure esilaranti, ben realizzate tecnicamente, con un character design un po’ fuori dagli schemi e che a me ha fatto pensare ad un aggiornamento in chiave contemporanea e 3D di personaggi e sfondi in stile UPA (più Gerald Mc Boing Boing che Mr. Magoo) passato per la sensibilità del Cartoon Network fine anni ’90 (tipo Dexter o Powerpuff Girls prima maniera). I bambini sono ben caratterizzati, la tata esuberante e amorevole fa da piacevole contraltare, a un certo punto c’è un personaggio che sembra preso di peso dai pennelli di Heinz Edelmann in Yellow Submarine, arcobaleni e tutto. Tutto il film è narrato da un gatto, con la voce di Ricky Gervais. Non perdetelo. #recensioniflash

ONWARD (Dan Scanlon, 2020)
C’è questa cosa che non ci pensiamo ma il cinema si è congelato ai primi di marzo. Bulimici di serie TV per non pensare alla pandemia in corso, non abbiamo più pensato ai film. Stasera vi parlo di un film che è uscito nei primi giorni del virus, e che ovviamente non ha avuto gli incassi sperati. Un film che è stato anche bistrattato per il fatto di essere – a detta di alcuni critici – un po’ scontato. Ma voi lo sapete che a me piacciono i casi disperati. E che con la Pixar vado sempre un po’ controcorrente, come il barcarolo. Voglio dire, credo di essere una delle quindici persone al mondo a cui è piaciuto alla follia Il Viaggio di Arlo. Ecco, allora vi presento Onward. Un film che racchiude mood molto diversi, dalla parodia alla commedia stile Apatow/Feig (le vibrazioni di Freaks and Geeks scorrono potenti), dal fantasy al grottesco, tanto che a me ha ricordato anche un po’ Heavy Trip, un film finlandese su una band di death metal che… ma sto divagando. Onward parte da una storia vera, l’esperienza del regista Dan Scanlon (Monsters University) che ha perso il padre poco dopo la nascita, restando solo con la madre e il fratello di un paio d’anni maggiore. Questo nucleo costituisce la premessa del film, abbinata a un world building un po’ strano. Ci sono elfi, ciclopi, unicorni e dragoni, ma la magia è sfumata e ora questi personaggi vivono in un mondo moderno, suburbano, con le insegne dei negozi un po’ gotiche tipo Shrek, ma tutto sommato più vicino al mondo di quel disastro di Bright con Will Smith. Ian (Tom Holland) è l’elfo protagonista, che vive con la madre e il fratello maggiore Barley (Chris Pratt). Per il sedicesimo compleanno di Ian ricevono un regalo dal padre morto quando Ian era in fasce: un incantesimo che lo farà tornare in vita solo per un giorno. Qualcosa però va storto, e il corpo del padre ritorna solo a metà… quella di sotto. Si parte per una quest epica allo scopo di trovare la Gemma della Fenice che potrebbe permettere ai due fratelli di completare l’incantesimo, accompagnati da musiche che a volte ricordano gli score dei più noti film fantasy e più spesso spingono sull’hard rock anni ’70 in stile Styx, Rush, etc. e da continui riferimenti al mondo dei giochi di ruolo. Il film è molto godibile e ricco di invenzioni visive magari non sorprendenti ma sempre interessanti e comunque azzeccate. Si nota anche lo sforzo di Disney/Pixar nell’ammettere che mmmmmmsì, i personaggi LGBTQI “esistono” (una poliziotta ciclope con la voce di Lena Waithe dice “anche la figlia della mia ragazza mi dà il tormento”). Siamo portati a pensare che tutta l’avventura sia un preludio al momento in cui finalmente Ian vedrà il padre per la prima volta, ma non è quello il punto. Il punto è il rapporto tra i due fratelli, e lo è sempre stato, anche se loro non lo sapevano. E il finale non è proprio scontato. Insomma, a me è piaciuto assai. Magari non entra nella top 5 Pixar (che per ora per me include Wall-E, Ratatouille, Up, Coco, Toy Story 3), ma viene immediatamente dopo. Sarà certamente per il feeling alla Freaks and Geeks. #recensioniflash

SERIE DA QUARANTENA

Tutte le volte che rientro nel blog mi rendo conto dagli aggiornamenti di WordPress di quanto tempo è passato dall’ultima volta. Stavolta c’era un motivo in più: il nuovo coronavirus, l’emergenza Covid-19, la quarantena. Tutt’a un tratto, la rivelazione. Sono praticamente undici settimane che non esco di casa… e non ne ho approfittato per scrivere Alla ricerca del tempo perduto CasaIzzo edition? Un tempo avrei occupato tutto il tempo possibile a scrivere, ma oggi ci sono tante distrazioni che implicano sempre e comunque fissare uno schermo: lo smart working, la didattica a distanza, i webinar, le videocall. Lo streaming. Soprattutto lo streaming.

Ecco perché oggi voglio approfittare per ripercorrere la mia quarantena con voi, usando la cronologia delle visioni di Netflix e Prime (e dei torrent), e raccontarvi quali sono state le serie TV che hanno caratterizzato la mia quarantena, per consigliarvele o meno. Tanto lo so che poi abbiamo visto tutti più o meno le stesse, quindi sarò molto tranchant nei miei giudizi (ovvero adotterò quando possibile la celebrata dicotomia capolavoro / merda) al solo scopo di polarizzare la discussione e alzare il livello dello scontro. Ma andiamo a incominciare…

FEBBRAIO / MARZO – FASE 0

Il 22 febbraio torno da un paio di giorni passati a Barcellona, a presentare un documentario realizzato con Bamboo Productions. Un momento celebrativo a base di cinema, tapas, passeggiate notturne, paella, tutto concentrato in due giorni. Sarebbe stata l’ultima volta che sarei uscito dai confini della città (e più o meno anche dai confini del divano di casa). In Italia si parlava ancora poco del Covid-19, c’erano i primi casi a Codogno e Vo’ Euganeo, si alzavano le sopracciglia vedendo che la gente cominciava a fare incetta di Amuchina, farina per dolci (o lievito) e guanti in lattice. Le vacanze di carnevale finiscono, ma le scuole restano chiuse. Parte a singhiozzo la DAD, la didattica a distanza, in ufficio tutto sembra irreale (e infatti dopo poco tempo veniamo proiettati in una dimensione ancora più irreale, quella dello smart working). In quei giorni, il mio orientamento è stato soprattutto teen, un po’ fantasy e un po’ splatter, ma soprattutto teen.

LOCKE & KEY

Tratta da un fumetto ideato dal figlio di Stephen King, sulla carta una cosa molto edgy, alla prova dei fatti… beh, una serie fantasy per tutta la famiglia. Tre fratelli esplorano l’inquietante casa di famiglia e scoprono che il defunto padre era al centro di un misterioso complotto per nascondere delle chiavi magiche che aprono dimensioni fantastiche (ma una creatura demoniaca li aspetta al varco). Ci può stare. Ci sono dei momenti visivamente belli, alcuni plateali rimandi all’estetica del Re, ma protagonisti un po’ antipatici. L’idea di base però è carina, credo che guarderò anche la seconda stagione.

I AM NOT OKAY WITH THIS

Qui partiamo con la pregiudiziale perché c’è Sophia Lillis e tutto quello che tocca Sophia Lillis bisogna solo venerarlo strisciando nudi a terra. Comunque. C’è questa tipa che ha i poteri, un po’ tipo Carrie, ed è costantemente incazzata. C’è l’amico nerd che abita sull’altro lato della strada che vorrebbe stare con lei ma il sesso è imbarazzante. C’è il classico distillato di anni ’80 che Netflix cerca in tutti i modi di propinarci, e funziona. Sette episodi, alla fine succede una cosa alla Carrie, ma non dico nulla. Qui i protagonisti invece sono eccezionali.

THE END OF THE F***ING WORLD S2

La seconda stagione è un po’ più meh rispetto alla prima, ma si fa guardare. C’è di mezzo Bonnie, la fidanzata dell’uomo ucciso da James e Alyssa nella prima stagione, e tutto ruota intorno a una vendetta che non arriva mai, non arriva mai e quando arriva… Boh è un po’ sgonfia. Comunque, splatter anche in questa stagione e questo è un po’ ciò che conta. Volutamente sgradevole anche nella recitazione, si fa comunque guardare.

ON MY BLOCK S3

Son due anni che vado dicendo che On My Block è una delle serie teen più vere e più godibili in circolazione. Risate e lacrime vanno a braccetto in questo ritratto della vita nei sobborghi di L.A., tra gang rivali e giornate a scuola, latinos e neri, pistole e primi amori. Per una volta niente nostalgia anni ’80 (casomai, cuoriosamente, anni ’90) e un finale shock che ribalta tutto quanto avevamo sperato in un sad ending che mi fa pensare che non avremo una quarta stagione. Comunque guardatela, spacca.

MARZO / APRILE – FASE 1

Intorno a metà marzo, abbiamo capito che la didattica a distanza non può funzionare. La stampante è diventata il nuovo totem familiare, senza stampante non si vive: occorre stampare le autocertificazioni. Una, dieci, cento autocertificazioni. Tutti dicono #andratuttobene (io no), tutti panificano (io no), nessuno sa esattamente cosa fare, la gente la prima settimana canta ai balconi (io no), la seconda settimana urla “state a casa” dai balconi (io no), la distanza di sicurezza, le mascherine introvabili, la coda al Lidl, la gente che scappa al sud e al sud non li vogliono, le terapie intensive, il silenzio, gli animali selvatici, la pasta madre, i morti, la curva del contagio, i DPCM, le bare in colonna, il sito dell’INPS che va in crash, tutti che fanno cose tipo che avevano sempre sognato di fare (io no) (anzi sì, ho cominciato una serie di dirette Facebook a tema classic movies che sto raccogliendo qua, se vi fa piacere) (se non vi fa piacere siete sgarbati e cattivi). In quei giorni le mie visioni hanno assunto un tono un po’ più cupo, per poi sbracare nel trash. Oddio, guardandomi indietro in realtà è tutto molto trash.

THE CHILLING ADVENTURES OF SABRINA S3

Vabbè. Questa andava vista per completezza. Sabrina è una di quelle serie che sono fresh per le prime due o tre puntate poi mostrano quasi subito la corda della loro autoreferenzialità. Comunque, alle serie derivate da un fumetto si perdona (quasi) tutto. C’è molto inferno, molto camp (molto più di prima, intendo), giovani corpi seducenti per tutti i gusti (c’è anche l’amica non binary che limona dopo 26 puntate di stracciamento di palle). Insomma, comunque ‘Brina diventa queen of hell ma c’è una nuova minaccia, i GRANDI ANTICHI (Chtulhu? No, un gruppo di giostrai con la passione per The Wicker Man). Caotico.

THE OUTSIDER

Qui varrebbe a imperitura memoria quanto ha scritto Zerocalcare sulle pagine di Best Movie. Comunque. The Outsider è una serie (tratta da Stephen King) molto solida, molto ben scritta, recitata, prodotta. Ha tutto di buono, c’è tensione, c’è mistero (oddio, io avevo letto il libro da poco, quindi mistero anche no, però insomma). Unico grande problema – che avevo rimosso – il fatto che l’antagonista principale si chiami El Cuco. Che cazzo, dài. Comunque, l’ho detto: solida. Recuperatela (questa va “recuperata”, non so se mi spiego).

HUNTERS

Guardo poco Amazon Prime, ed è un peccato perché dentro ci sono chicche come Hunters, dove c’è Al Pacino che gigioneggia in mezzo a un azzeccatissimo cast di improbabili tipi anni ’70 (tra cui Ted Mosby coi baffoni) che tutti insieme costituiscono il supergruppo dei “cacciatori di nazisti”! Sì, sangue, ultraviolenza e tarantinate varie coi nazi cattivissimi che muoiono male (ma muore male anche qualcuno dei buoni). Molto criticata per aver romanzato l’olocausto nei flashback ambientati ad Auschwitz, io comunque l’ho trovata un buon passatempo, c’è anche il supercolponediscenafinale.

TIGER KING

Sulla carta, non c’è nulla di più lontano dai miei gusti di Tiger King, eppure. Molti contatti che stimo continuavano a proporla, e allora l’ho guardata. Tiger King, con il suo protagonista larger than life Exotic Joe (gay, white trash, ossessionato dai grandi felini e dalle armi), ci fa comprendere l’America che non siamo abituati a vedere. In poche puntate questa serie documentaria usa il true crime per parlarci della società che ha votato Trump. Si capiscono molte cose. E poi c’è anche uno special finale condotto da Joel McHale, tanto amore!

LA CASA DE PAPEL

La quarantena chiama necessariamente La casa de papel, è quasi un’equivalenza obbligata. Non l’avevo mai considerata anche perché avevo provato a guardarla in tempi non sospetti e l’avevo abbandonata dopo 20 minuti. Stavolta l’ho vista TUTTA, per far piacere a mia moglie che è diventata una fan. Responso: ho dormito per la maggior parte delle prime due stagioni (mi facevo raccontare la trama il mattino dopo a colazione). La terza e la quarta stagione mi hanno invece tenuto sveglio, si vede che i soldi di Netflix sono serviti a qualcosa. Ma è morta Nairobi, puta mierda, viva Nairobi!

APRILE / MAGGIO – FASE 2

La fase due, ormai è acclarato, è come la fase uno ma senza quell’afflato poetico/eroico dello #stateacasa, tutti sono scazzati, demotivati, da un pimpante eroismo siamo arrivati prima alla disperazione, poi alla delazione, all’incattivimento, al runner bastardo, ai pisciatori di cani, ai passeggiatori di bambini, c’è troppa gente in giro, ci vuole l’esercito, dagli all’untore, i TSO, le violenze domestiche, le dirette Facebook (quelle del Pres, non le mie), dire tutto per non dire niente, i dati ufficiali, i dati non ufficiali, i tamponi, i sierologici, i reagenti, gli amici che perdono i congiunti, i congiunti, diomadonna, i congiunti. E poi naturalmente la cucina: “cosa facciamo a pranzo”, e dopo pranzo “cosa facciamo a cena” e io non voglio più cucinare per almeno due anni. In questo caos grottesco, in CasaIzzo ha prevalso il dramma, l’introspezione. Oddio, prevalso. Diciamo che si è preso un buon 50% di visioni.

CRISIS IN SIX SCENES

Ragazzi, ci ho provato. Peraltro uno dei libri che ho letto in quarantena è stato proprio “A proposito di niente”, autobiografia di Woody Allen, moderatamente interessante e divertente. Eppure, non so. Continuo a non essere in sintonia con il Woody del nuovo millennio. Si vede che ha mestiere, che fa la sua cosa in scioltezza, ma… un po’ di noia c’è, anche se Miley Cyrus è sempre bona, e i dialoghi tra Woody e Elaine May sono sopra la media. Ah, si parla di diritti civili nell’America alto borghese dei primi anni ’60.

AFTER LIFE S2

Ricky Gervais è un genio. Tolto questo dal tavolo, possiamo dire che la seconda stagione di After Life è leggermente al di sotto dei risultati della prima? La struttura è identica (e perciò mostra un tantino la corda) e l’unica differenza è che Ricky cerca di essere più empatico e meno caustico con le persone. Certo è che lo zoo umano di cui si è circondato in questa serie vale tanto quanto lui (il mio preferito è il postino Pat, ma subito dietro c’è l’inquietante figlio della fidanzata del collega fotografo – perdonate il giro di parole lunghissimo ma non ho voglia di andare a reperire il nome del personaggio).

UNORTHODOX

Oh, la miniserie, che bella invenzione! Non dover aspettare un anno per vedere come va a finire la storia! Unorthodox è bella secca, quattro puntate di circa un’ora e bon. La storia vera è quella di una donna che rifiuta la sua comunità chassidica di ebrei ultraortodossi di Williamsburg (da cui il titolo) e che vive il suo sogno nascondendosi in un conservatorio di Berlino. Vabbè, comunque è curiosa perché è recitata mezza in inglese, mezza in yiddish e mezza in tedesco, poi c’è questa attrice Shira Haas che interpreta la protagonista che è super magnetica. Emozionante.

HOLLYWOOD

Una miniserie di Ryan Murphy. E già così avrei detto tutto. La storia è quella di alcuni giovani outsider che spingono per lavorare in uno studio cinematografico nella Hollywood post-war. Ovviamente ci sono un sacco di scene di sesso, gigolò, produttori assatanati che vogliono fare pompini (e questo è Jim Parsons, nel ruolo più anti-Sheldon Cooper immaginabile), Patti LuPone, teatralità a mille, un ritratto d’epoca filtrato attraverso la sensibilità camp di Murphy che alla fine somiglia più a una lunga puntata di Glee senza musical che non a una cosa “seria”. Comunque godibile, eh.

THE MIDNIGHT GOSPEL

Questa è stata la sorpresa più allucinante di tutta la quarantena. Prendi un podcast (che non conoscevo) dedicato a tematiche come meditazione, droghe, percezione di sé, morte e rinascita. Chiama Pendleton Ward (il creatore di Adventure Time) per creargli sopra una serie di immagini animate che non sempre o non del tutto sono in relazione con quanto viene detto in traccia audio. Mixa il tutto e niente… un’esperienza di pura psichedelia. Le ultime due puntate (se ci si arriva, perché è una serie “faticosa”) valgono qualsiasi cosa vista in TV negli ultimi anni. E strappano il cuore.

NEVER HAVE I EVER…

Torniamo a un teen drama, ma questa volta con la certezza che si tratti di un teen drama ben scritto. Never have I ever ha recensioni tutte positive, tipo il 100% di entusiasmoh, quindi dai. Sarà perché la protagonista (sfigata in botta per il figo della classe) è indiana, e molto della serie si basa sulla cultura indiana trapiantata in USA. O sarà perché per una volta hanno scelto attori credibili e situazioni non troppo sopra le righe. O sarà perché hanno scelto di chiamare John McEnroe e fargli fare la voce narrante (!!!). C’è un motivo per questa cosa di John McEnroe, comunque. E in effetti, nel suo genere, è una serie molto valida. Attendo con ansia la prossima stagione.

Mentre finisco di scrivere queste righe mi rendo conto che come al solito non ho saputo parlarvi di una cosa e una soltanto, e ho dovuto ficcarci dentro alcune considerazioni personali sul periodo che abbiamo vissuto negli ultimi tre mesi. Questo post è diventato quasi un diario della pandemia visto attraverso le serie TV. Ma se volete leggere veramente dei diari della pandemia, per ricordarvi quello che è successo in questi tre mesi che sono sembrati tre secoli, vi rimando a due amiche lombarde. Il diario del coronavirus di Barbara Sgarzi e Vivere nella paura di Daniela Losini sono due testimonianze vere, diverse, a volte buffe, ricche di introspezione e purtroppo anche devastanti.

E sono testimonianze che mi sono entrate nel cuore, più di qualsiasi serie TV.

STEVEN UNIVERSE FUTURE

Dicembre 2020: da quanto vedo questo post è molto ricercato, sul blog e su Medium, perciò mi sento in dovere di aggiornarlo parlando anche della seconda metà della stagione di Steven Universe Future (al momento ancora inedita in Italia). Scorrendo in giù troverete il solito vecchio post ma con qualche paragrafo in più… 😉

Sembra sempre strano quando lo scrivo, ma quando ci penso bene è effettivamente così. Dal 2016 ad oggi la mia vita (e quella della mia famiglia) ha avuto dei miglioramenti grazie ad una serie animata*.

Mi riferisco ovviamente a Steven Universe (160 episodi per cinque stagioni dal 2013 al 2019, disponibile ancorché poco agevolmente** su Cartoon Network, Boing e da un paio d’anni anche su Netflix), la serie di Rebecca Sugar sul bambino figlio di un umano e di una gemma spaziale che difende il nostro mondo dalle gemme malvagie, scoprendo a poco a poco i suoi super poteri e soprattutto venendo a conoscenza della intricata backstory dei propri genitori e tutori legali.

In pratica vi ho fatto il tipico blurb da Netflix, poi ovviamente la storia è molto più complicata di così e non è mia intenzione farne un’analisi adesso. C’entra il modo con cui cambia lo sguardo verso la figura genitoriale, c’entrano i traumi pregressi e i “carichi” che la storia familiare spesso ti dà, c’entra l’empatia come chiave per risolvere i conflitti, c’entra soprattutto la definizione di un’identità personale svincolata dalle convenzioni sociali e pienamente auto-affermata (il tutto in episodi animati da 10 minuti l’uno, figo, no?)… Vi rimando ad un mio vecchio post per approfondire.

Idee più chiare? Bene. La quinta stagione si è conclusa nella primavera 2019 con un lungo episodio speciale (“Change Your Mind“) trasmesso in Italia solo nell’autunno 2020. Nell’autunno del 2019 è uscito invece Steven Universe The Movie (qui la mia recensione), un vero e proprio musical che potrebbe definirsi come un “victory lap”, un ultimo giro di giostra che riprende in 90 minuti tutti i temi della serie e ne tira le fila. Ma il fandom di SU (di cui peraltro faccio parte a pieno titolo) è affezionato al limite della mania, e lo stesso deve essere per Rebecca Sugar stessa.

Ecco quindi che nel 2020 Steven Universe è tornato con una nuova serie “Future“, che come il film si svolge qualche tempo dopo il finale della quinta stagione. Steven è a pieno titolo un adolescente problematico, che sembra essere in pace con sé stesso, ma evidentemente non lo è. La chiave della nuova serie? Steven ha sempre risolto con la sua intelligenza emotiva i problemi di tutti, ma non ha mai risolto i suoi. E adesso questi problemi (sotto forma di “poteri”) stanno premendo dall’interno per uscire.

Nei dieci episodi che costituiscono la prima parte della miniserie, Steven scopre di avere grossi problemi di gestione della rabbia, per esempio. Una rabbia che si manifesta sotto forma di un aura rosa che aumenta a dismisura i suoi poteri, ma che lo rende decisamente meno umano. Si parte dal desiderio – ancora una volta – di essere d’aiuto per gli altri per arrivare alla realizzazione che l’unica persona che ha bisogno d’aiuto è proprio Steven. Un caso da manuale di PTSD mista ad angoscia esistenziale, paura della solitudine e sindrome del Caregiver. Nel corso degli episodi scopriamo che Rose, la madre di Steven, ha commesso molte più “malefatte” di quelle che già erano note in passato. Il carico di sensi di colpa che Steven si porta dietro per colpa della madre è un tema centrale in tutta la serie, ma qui si ripresenta con maggiore potenza: Steven è destinato a ripercorrere lo stesso percorso di Rose?

La maestria dello storytelling di Rebecca Sugar ha fatto sì che negli anni gli spettatori scoprissero insieme con i protagonisti della serie che il personaggio di Rose, inizialmente idealizzato nella sua assoluta e non scalfibile “bontà”, è in realtà uno dei più complessi, ambigui e “fallati” del mondo di Steven Universe. Un character arc “a ritroso” che in molti casi ha confuso gli spettatori che oggi disprezzano il personaggio come se fosse il villain dello show. Ovviamente non è così. Al di là dei molti antagonisti “esterni”, che bene o male fanno la parte di cattivi “da operetta” o si convertono a rimanere al fianco di Steven, il vero male da combattere in Steven Universe è la refrattarietà ad accogliere dentro di sé anche le emozioni negative e a viverle pienamente come è giusto che sia.

In generale, la scelta di proseguire con una “nuova” serie è stata indicativa di quanto la Sugar sia disposta ad esplorare quello che succede a un eroe dopo che il suo viaggio è finito. Cosa resta dell’avventura? Come può sopravvivere Steven – il salvatore del mondo – quando nessuno ha più veramente bisogno di lui? SUF rischia in alcuni episodi di rasentare il filler (termine vagamente dispregiativo usato per indicare episodi che non portano avanti significativamente la trama orizzontale), ma in altri – come “Volleyball”, “Little Graduation” o “Prickly Pear” – vola altissimo. Steven deve accettare di non essere più necessario, deve lasciar andare i suoi vecchi amici e deve, come si suol dire, voltare pagina. Crescere vuol dire riconoscere i propri bisogni e saperli comunicare. Ma Steven è stato troppo occupato a diventare un eroe e salvare il mondo. Deve ancora imparare a salvare sé stesso.

La seconda metà di Steven Universe Future (gli ultimi 10 episodi, trasmessi a marzo in USA e ancora inediti in Italia) rappresenta il vero e proprio epilogo della saga di Steven. Cento minuti sembrano pochi per imparare a gestire la ridda di emozioni che si agitano nel cuore di Steven, ma Rebecca Sugar e il suo team riescono a chiudere (quasi) tutte le storie rimaste in sospeso. Da qui in poi SPOILER grossi come una casa, quindi continuate a leggere a vostro rischio e pericolo.

Dopo un paio di episodi interlocutori che servono da un lato a completare il quadro dell’estraniamento di Steven da tutto il suo mondo, dall’altro a tratteggiare l’evoluzione di un personaggio come quello di Perla (in “Bismuth Casual”), si arriva al dunque. Negli episodi successivi, in un crescendo altalenante di emozioni, Steven in un certo senso perde gli ultimi due agganci con la realtà e con la sua “umanità” (Connie e Greg) e avvia la sua trasformazione metaforica – ma anche letterale – in “mostro”. Nell’episodio “Growing Pains” vediamo come la crisi psicologica di Steven si rifletta in rigonfiamenti rosa che lo rendono sempre più simile a Rose Quartz / Pink Diamond, la problematica madre aliena e come in modo molto acuto gli venga diagnosticata una sindrome da disturbo post-traumatico. In tutti gli episodi dalla prima alla quinta stagione abbiamo visto Steven combattere con arguzia e leggerezza. Ora capiamo che tutti quegli scontri hanno lasciato un segno, fisico e psichico.

Il punto di non ritorno arriva quando Steven attua l’irreparabile (beh, non proprio così irreparabile, ma qualcosa che lascia un segno indelebile): da quel momento perde la sua umanità e si trasforma… in un enorme kaiju rosa! È buffo da dire, perché sulla carta è una trovata quasi surreale, ma considerando il debito che Steven Universe ha con molti anime tradizionali e l’amore che Rebecca Sugar ha per quel tipo di animazione, ci sta tutto. E la cosa viene trattata molto seriamente dai suoi amici e familiari. Come sempre, il potere dell’amore vincerà su tutto in un episodio finale all’insegna del ritrovato amore di sé, l’unico “potere” che a Steven ancora mancava. È il tema, lo capiamo solo alla fine, della sigla finale della serie – non a caso, “Being human”.

Tutto sommato, anche se del mondo di Steven vorremmo vedere ancora ore e ore di trasmissione, Future ha una chiusura soddisfacente, che non lascia delusi. Ovviamente, si piange moltissimo. Altrettanto ovviamente, non resta che consolarsi con gli art book e il cofanetto celebrativo (ahimè solo USA).

* Acuto com’è nell’analizzare i temi della depressione e dei problemi psicologici dei personaggi (è praticamente un Bojack Horseman per bambini), Steven Universe mi ha inaspettatamente aiutato in momenti molto bui della mia vita, e sono convinto che averlo riguardato con la Creatura abbia contribuito a farlo crescere meno manesco e con il valore dell’empatia e del riconoscimento delle diversità.

** Non so su Cartoon Network Italia, ma su Boing hanno lo stramaledetto vizio di trasmettere blocchi di episodi “a cazzo”, il che è la morte per una serie come Steven Universe che basa il 90% del suo appeal sulla continuity molto forte tra i vari episodi e le varie stagioni.  Su Netflix invece hanno deciso di pubblicare la prima stagione e poi la quarta, senza la seconda e la terza. Insomma, un casino. Su Kimcartoon lo trovate tutto (in inglese). Se cercate il gruppo Steven Universe Italia su Facebook e chiedete lì, qualche dritta ve la danno di certo. Non c’è gioia più grande per un fan di SU di coinvolgere nuovi spettatori ignari…