I BAMBINI SON CRESCIUTI (IN COREA)

La raccolta delle rece di novembre, mese un po’ incasinato per vari motivi (mi sono impigrito al punto di non presenziare nemmeno al Torino Film Festival) e quindi niente, poca roba. Ma interessante. Ah, beh, no, è che ho visto la filmografia di Bong Joon-Ho, ma era tutto solo per prepararmi a Parasite. Questo anche per giustificare il titolo. Enjoy.

GOOD BOYS (Gene Stupnitsky, 2019)
Bene, ci sono quelle sere in cui vuoi spegnere il cervello e ridere un po’. Le cose di Seth Rogen e Evan Goldberg (Superbad, Sausage Party, This Is the End) a me hanno sempre fatto ridere assai. In più, qui al timone ci sono due che si son fatti le ossa scrivendo The Office. E poi c’è Jacob Tremblay, che quando parliamo nel 2019 di attori bambini bravi, uno dei primi nomi che mi viene in mente è lui (Room, The Book of Henry e Wonder, per dire). E quindi chi sono io per snobbare la loro nuova commedia uscita quest’estate? Good Boys, diciamolo subito, è Superbad ambientato in prima media invece che al liceo. Siamo sempre lì a dire quanto sono smart i ragazzini di oggi che battono ogni generazione precedente, quindi perché non fare una commedia sexy, sboccata e demenziale con un trio di protagonisti undicenni? Intendiamoci, non è niente di terribile, anche se in patria è “Rated R” (più che altro per il linguaggio). Good Boys magari non è un film per undicenni (anche se ad undici anni io avrei pregato in ginocchio per poter vedere un film così), ma è certamente un film per quegli adulti che ricordano bene com’era avere undici anni e – per dirla con il personaggio di Tremblay “avere tutti i giorni gli ormoni talmente in palla da volersi strusciare contro ogni albero”. In pratica, una versione live action di South Park, con lo stesso tipo di progressione catastrofica di un episodio di South Park. Inizia un po’ alla American Pie con gli inevitabili riferimenti alla masturbazione, e continua in un tripudio di sex toys clamorosamente fraintesi, droni distrutti, incidenti in BMX, spaccio di ecstasy, battaglie di paintball, uso creativo di parolacce. Ma Good Boys non è solo un film cazzaro, vuole avere anche un cuore (proprio come Superbad a suo tempo) e lo dimostra nei passaggi più sentimentali tipici delle commedie coming-of-age. La trama ve la cercate voi (è veramente esile, e comunque si può riassumere in “ragazzi, si cresce”). Però – e lo dico perché forse leggendo ciò che ho scritto resta il dubbio – per me è un sì abbastanza convinto. Cioè, non sembra di aver buttato via un’ora e mezza. E i tre bravi ragazzi sono veramente convincenti. #recensioniflash

IT CHAPTER 2 (Andrés Muschietti, 2019)
Ho visto It Chapter 2 con poche aspettative, dato che gli entusiasmi qualche settimana fa erano scarsi e boh, nessuno veniva a vederlo. Ammetto che l’effetto nostalgia del primo film non lo potevano ripetere, e nemmeno la chimica perfetta del gruppo di giovini attori nel ruolo dei Losers. Però, c’è un però. Sarà lunghissimo, sarà imperfetto, sarà sbilanciato, sarà episodico (ma lasciatemi dire anche il romanzo ha alcuni di questi difetti), ma io l’ho trovato coinvolgente. In apertura c’è la famigerata scena di Adrian Mellon (una delle due parti del romanzo considerate “poco filmabili”). Un pugno nello stomaco con il cameo di Xavier Dolan (!) che setta il tono per il resto del film, nonché per una tematica LGBTIQ che il romanzo aveva molto meno (e c’è un cambiamento significativo per quanto non troppo esplicito sull’orientamento sessuale di uno dei protagonisti). Poi parlando di cameo c’è il Re in persona nella parte di un negoziante inquietante, e Peter Bogdanovich (!!) nel ruolo di… sé stesso. Ci sono attori che tentano disperatamente di essere credibili, ognuno con la propria backstory e qui (a parte Bill Hader, eccezionale) casca un po’ l’asino. Ma soprattutto c’è il Pennywise di Bill Skarsgard, sempre più proiettato nell’olimpo dei mostri più efficaci e iconici del cinema horror. Muschietti spinge sempre sul pedale del gore, e questo è un bene, non risparmia sangue e violenza (almeno due bambini divorati brutalmente) e le creature deliranti in cui It si trasforma fanno passare davanti ai nostri occhi John Carpenter, Tobe Hooper, Wes Craven – il tutto con il solito tocco “alla Spielberg” che normalizza un po’ la potenziale carica eversiva del film e che forse andava bene nella prima parte ma qui era da evitare. Vale una notte insonne, via. #recensioniflash

SCARY STORIES TO TELL IN THE DARK (André Øvredal, 2019)
Tipico film da Halloween, con produzione di Guillermo del Toro (motivo principale per cui l’ho approcciato), questo simpatico film per ragazzi è tratto da una collana di storie creepy scritte da Alvin Schwarz per un pubblico di young adult. Per cui, insomma, lo spirito c’è, ma gli spaventi non sono molti e soprattutto sono, come dire, risaputi. Possiamo definirlo un incrocio abbastanza ben riuscito tra le creepypasta del nuovo millennio e i fumetti EC Comics degli anni ’50 e ’60 da cui non a caso era tratto Creepshow, che mi pare il film di riferimento per tutta l’operazione, tolto il narratore “from the crypt”. Se vi stuzzica, accomodatevi: c’è uno che vomita paglia e si trasforma in uno spaventapasseri, uno spezzatino con dentro un alluce di morto, una pletora di ragni che escono da un enorme foruncolo e una bella creatura capace di smembrarsi e ricomporsi. I ragazzi protagonisti sono abbastanza in palla e c’è tutta una patina di nostalgia per via del fatto che l’azione principale si svolge nientemeno che nel 1968, chissà perché. #recensioniflash

KLAUS (Sergio Pablos, 2019)
Netflix ha deciso di investire moltissimo nell’animazione originale e bla bla bla, avete letto tutti i comunicati stampa. Io posso solo confermare che Klaus è un film ben costruito, equilibrato, che racconta una immaginaria “origin story” di babbo Natale e che può piacere ai bambini come agli adulti. C’è un postino viziato (Jason Schwartzmann, ricalcato un po’ sull’imperatore Kuzco di Disney) che viene spedito su un’isola del circolo polare artico per punizione. Qui dovrebbe teoricamente lavorare ma nessuno scrive lettere, quindi lui si inventa un sistema di lettere e di spedizioni alle spalle di Klaus (J.K. Simmons), boscaiolo burbero e inquietante con l’hobby di costruire giocattoli. Ovviamente dietro c’è una storia triste e altrettanto ovviamente ci sono un paio di momenti emotionally challenging, ma di base il film è ricco di gag non stupide e ha un ritmo invidiabile. Dal punto di vista visivo, che dire. Pablos arriva dal rinascimento Disney (Hercules, Il gobbo di Notre-Dame) e si vede. Ma qui cerca di riprendere il discorso dell’animazione tradizionale dopo più di 20 anni di CGI e lavora tantissimo sull’illuminazione e sugli sfondi (o meglio sul rapporto tra i personaggi e gli sfondi): da questo punto di vista, Klaus è un piccolo capolavoro. Segnalo per amor di completezza che i doppiatori italiani sono Pannofino e Mengoni (no, non Mangoni, che sarebbe stato veramente geniale). #recensioniflash

PARASITE (Bong Jooh-Ho, 2019)
Finalmente ho visto Parasite. Veramente rimarchevole. Ci arrivo dopo un mese di “cura Bong” (nelle ultime settimane ho visto Memories of Murder, Mother, The Host, Okja, Snowpiercer, Shaking Tokyo). Perciò, oltre ad essere una festa per gli occhi, ci arrivo un po’ preparato dall’essermi immerso in quella che una volta si chiamava “la poetica dell’artista”. Parasite rispetto agli altri film mi è sembrato forse più studiato, più programmatico e meno anarchico nella consueta commistione tra generi diversi, ma comunque preciso e geometrico come pochi altri film contemporanei sanno essere. Un film “in verticale”, fatto di scale, discese, fognature, bunker, lotta di classe e metaforoni (a volte un po’ buttati lì per provocazione), divertente e amaro come certi classici italiani che inevitabilmente vengono in mente, da Pasolini a Scola passando per Totò. Ma anche un film che ripropone molte lezioni hitchcockiane muovendosi in uno spazio chiuso perfettamente “cinematografabile” dove le azioni in contemporanea e la profondità di campo sono sfruttate al massimo. Inevitabile che sia piaciuto così tanto, piacevole sorpresa trovare una coda tipo Starbucks al Nazionale, ultima sala torinese a programmarlo. Urge rivederlo in originale. #recensioniflash

DOWNTON ABBEY ( Michael Engler, 2019)
Se ne sentiva il bisogno? Forse no. Eppure il film di Downton Abbey, proprio come la serie, è uno di quei prodotti confezionati alla perfezione che ti prendono e ti portano con sé anche se tu non vuoi. Per dire, cosa me ne può fregare di una rappresentazione molto britannica di una lotta di classe tra servitù e nobili nella campagna inglese sullo sfondo della monarchia pre-Elisabetta? Niente, sulla carta, ma quella era la premessa di tutta la serie. Alla fine bastavano dieci minuti di un episodio, e la presenza della dowager countess Violet Crawley e ogni resistenza andava a farsi friggere. Lo stesso per il film. Siamo nel 1937, Downton continua a vivacchiare come si poteva intuire dal series finale di un paio d’anni fa, ma improvvisamente arrivano il re e la regina in visita: paura e delirio. Tutti si agitano tantissimo ma il bello arriva quando si capisce che i reali si vogliono portare la loro servitù e defraudano i valorosi camerieri di Downton del privilegio di servire il loro Re. Frega un cazzo, direte voi? Eppure. Ovviamente ci sono mille sottotrame e mille intrighi amorosi e non, come un’intera stagione della serie concentrata in un paio d’ore. In questo Fellowes è sempre bravissimo. #recensioniflash

L’AUTUNNO DEI CRANI SFONDATI

Ottobre è il mese di Halloween, quindi stavolta trovate prevalentemente horror… più qualche piccola deviazione dal genere. Con malcelato orgoglio nerd, vi segnalo anche che alcune di queste #recensioniflash, opportunamente rimaneggiate, hanno trovato una nuova casa e un nuovo pubblico su Gli 88 Folli (Il sito di cinema che non c’era). Mi è stato detto che inserisco troppi spoiler in questi brevi testi. A me non sembra. Se a voi sembra, che vi devo dire. Procedete con cautela.

ONCE UPON A TIME… IN HOLLYWOOD (Q. Tarantino, 2019)
Ok, esco adesso da Once Upon a Time… In Hollywood. Vado di #recensioneflash a caldo. Non c’è storia e non c’è nemmeno Storia, ma c’è una fottuta tonnellata di Cinema. Sigarette, moltissime. Di Caprio che scatarra, stivali, stivaletti, mocassini. Piedi nudi, sporchi, in primo piano. Si guida tantissimo, strade, Cadillac Coupe Deville, polvere, insegne al neon. Un’intera sequenza di insegne al neon. Attori, stunt, catering, metacinema, inside joke, inside joke negli inside joke, una Inception di inside joke. Non c’è storia ma c’è ricordo. Non un ricordo vero ma filtrato da schermi piccoli, grandi, specchi, cornici, poster. Il paradiso di un cinefilo amante dei B-movie. Ci sono i divi veri. Ci sono in realtà due film, uno caleidoscopico ma di ampio respiro, uno più claustrofobico e ritmato. La fantasia prende il potere, cinema-cinema, #cranisfondati, cani addestrati. In fondo è una splendida favola di sangue. C’era una volta, e ora non c’è più. Nostalgia, il dolore del ritorno.

YESTERDAY (D. Boyle, 2019)
Vedere Yesterday di Danny Boyle dopo Once Upon A Time… In Hollywood di Tarantino dà luogo ad alcune interessanti riflessioni. Yesterday ha dalla sua la curiosità di un film girato da uno dei registi più cinematici (nel senso proprio di movimento) in circolazione e scritto da un campionissimo della british romcom come Richard Curtis. Ora, sgombriamo il campo. Le invenzioni visive e il montaggio allucinato di Boyle ci sono, ma ancora di più ci sono i topoi di Curtis (protagonista davanti alla porta dell’amata sotto la pioggia, grande corsa per fermare il mezzo di locomozione che porterà via da lui l’amata, umiliante dichiarazione pubblica nel sottofinale, afasia, pause, imbarazzanti gilet e gestualità isteriche a malapena trattenute). Insomma, diciamo che Curtis si mangia un po’ Boyle, e il film diventa più commedia romantica risaputa che surreale studio sulla cultura di massa. La storia la sanno anche i sassi, c’è un blackout globale, alcune cose “scompaiono” dall’orizzonte culturale. I Beatles (ma anche diversa altra roba che non dico perché è alla base di tutte le gag più simpatiche del film) non sono mai esistiti. Solo Jack se li ricorda, e tenta il colpo di avere successo suonando le loro canzoni e fingendo di averle composte lui. Nel suo percorso verso il successo mondiale riesce anche ad umiliare il talento compositivo di Ed Sheeran nel ruolo di Ed Sheeran (fa simpatia, Ed Sheeran, comunque, va detto). Insomma, tutto uno showcase di cover dei Beatles che anche basta, poi una nota stonata e un’idea di suspence che viene subito mandata in vacca, ma soprattutto a un certo punto la convergenza con Tarantino. Curtis e Boyle “cambiano la storia” e girano una scena che è un “what if” grosso come una casa, ma che non salva il film dall’essere una graziosa commedia di Curtis con qualche flash fulminante di Boyle. #recensioniflash

MIDSOMMAR (A. Aster, 2019)
Midsommar è un incubo delirante lungo più di due ore che dimostra a tutti che no, Ari Aster non ha intenzione di fermarsi dopo Hereditary (miglior horror dell’anno scorso per me). Qui c’è una storia alla Wicker Man ambientata nella Svezia rurale, con setta di mistici dalle tradizioni inquietanti tipo che a una certa ti devi buttare da un dirupo (e vai di #cranisfondati) o che devi prendere i funghi e vedere le colline e i fiori colorati che ti fanno ciao. Midsommar riesce genuinamente a dare la nausea allo spettatore, ma non è solo una questione di effetti prostetici (abbiamo anche una morte per “blood eagle”, googlate che non ho cuore di spiegare cos’è, una cosa rivoltante con un orso che Inarritu lévati, e un paio di roghi umani parecchio insistiti e parecchio in primo piano). È proprio che non c’è scampo, ti devi puppare a ritmo lentissimo e inesorabile tutta la fantasia malata di Aster. E quindi chapeau, abbiamo trovato uno quasi peggio di Lars Von Trier. Ah, e comunque migliore scena di sesso al cinema di tutti i tempi, vedere per credere. #recensioniflash

BRIGHTBURN (D. Yarovesky, 2019)
Brightburn, è un horror godibile anche se un po’ convenzionale prodotto da James Gunn e ha la particolarità di essere praticamente una versione cattiva e deviante di Smallville. Cioè, la origin story di Superman bambino con i superpoteri usati per uccidere senza pietà gli adulti che lo intralciano invece che aiutare le vecchiette. Anche qui, manco a dirlo, #cranisfondati molto insistiti, una scheggia di vetro in un occhio che ricorda tantissimo Lucio Fulci (ti amiamo sempre, Lucio) e molto, molto splatter ben fatto. Il film procede come un semplice horror con raggi laser dagli occhi e superforza e supervelocità (il bimbo protagonista è uno di quei classici bimbi con la faccia da sociopatico fin da piccoli) e insomma, ricorda un po’ Il presagio per il senso di angoscia e il primo Spider-Man di Raimi per la bruttezza estrema del costume da supereroe. Finché nel simpatico e prevedibile finale senza alcuna speranza, il male trionfa e si vira verso il cinecomic puro, con una scena post-titoli che farebbe pensare a un sequel (o è Gunn che prende per il culo, delle due l’una). Ah e non dimentichiamo Billie Eilish azzeccatissima sui titoli di coda con Bad Guy (duh!) #recensioniflash

3 FROM HELL (R. Zombie, 2019)
Vorrei dirvi qualcosa di sensato su 3 From Hell, l’ultimo Rob Zombie che ho visto in due parti nelle ultime due sere. Ma appunto, c’è poco da dire se non che mi sono fumato intere sequenze del film dormendo. E non è che non ci sia il solito, esagerato gusto per le gole tagliate, gli sbudellamenti, i proiettili esplosi in faccia (#cranisfondati), gli strangolamenti di diversi minuti in piano sequenza, le torture, le scritte col sangue, e tutto l’armamentario mansoniano tipico di Zombie. Piuttosto è che non si sentiva il bisogno, quasi quindici anni dopo The Devil’s Rejects, di un terzo film sul trio di supercattivi sadici e folli interpretato da Sheri Moon Zombie, Bill Moseley e Sid Haig (che poveraccio è morto poco dopo l’uscita del film e infatti il suo ruolo è poco più di un cameo). L’estetica sgranata e seventies, i fermo immagine, i primi piani sfocati e insistiti sono stati un gioco piacevole nei primi due film. Da un “creativo” dell’horror come Rob Zombie mi aspetto altri tipi di percorso. Lords of Salem, per esempio, è stata una graditissima sorpresa. E quindi, insomma, sanguinolento ma noioso e prevedibile. Peccato. Poi boh, a Kevin Smith è piaciuto tanto, per dire. #recensioniflash

THE DEAD DON’T DIE (J. Jarmusch, 2019)
Intanto non esiste un film brutto di Jim Jarmusch quindi non cagate il cazzo con la storia che Jim Jarmusch ha fatto un film di zombi e che spreco di talento di qua e che noia di horror di là (come se non avesse girato quell’altro capolavoro di Only Lovers Left Alive). The Dead Don’t Die è un film figo. C’è Iggy Pop zombie. C’è Bill Murray (il che rende qualsiasi film figo a prescindere), c’è Adam Driver, Chloe Sevigny, Tilda Swinton nel suo classico ruolo alla Tilda Swinton (vagamente elfica, bravissima con la katana, becchina e scozzese). C’è Tom Waits nell’unico ruolo che ultimamente riesce bene a Tom Waits (l’eremita ipertricotico). Ma va bene, dai, ci sono anche delle note un po’ meh, tipo una pletora di autocitazioni che diventano anche un po’ intrusive. Oh, poi non si può dire che il film lesini sugli effetti speciali: la gorefest comincia abbastanza presto e il cannibalismo regna sovrano. In particolare c’è una scena deliziosa con Selena Gomez decapitata (non è un #craniosfondato, ma quasi). Alla fine è un film di Jarmusch, quindi molto lento e contemplativo, molto cinico e disperato, con due componenti abbastanza inedite. La prima: una rottura della quarta parete così insistita da diventare quasi parodistica (del tipo “Ma come sai che andrà a finire male?” – “Beh, ho letto la sceneggiatura”). La seconda: un sottotesto politico che è tipico dei grandi film di zombie (Dawn of the Dead su tutti) ma che qui è veramente insistito e “spiegato” per dimostrare che l’uomo è il cancro del pianeta, più o meno. Cioè, se vi piacciono i morti viventi e Jim Jarmusch è un film perfetto. Se manca anche solo una di queste due condizioni, temo che vi farà cagare. #recensioniflash

ELI (C. Foy, 2019)
Allora, niente, Halloween si avvicina e fioccano gli horror fondi di magazzino. Che sono poi un po’ come quel sacchetto di popcorn che non dovresti mangiare, ma è lì che ti aspetta, perché non aprirlo? Eli è così, è uno di quei film che se lo guardi da solo al buio e con una buona disposizione d’animo (leggi: te ne fotti del fatto che sia tutto prevedibilissimo, almeno fino a un certo punto) fa il suo sporco lavoro. Eli è il nome del bimbo protagonista, che soffre di una rara malattia autoimmune e viene portato dai genitori in un centro medico all’avanguardia per essere curato (bambino malato, procedure mediche, splatter chirurgico). Il centro medico sembra uscito da un romanzo di Henry James (casa infestata, fantasmi negli specchi, potenziali bambini morti male, zanzaroni del malaugurio). La dottoressa interpretata da Lily Taylor è via via più losca, e pare che anche i genitori o almeno il padre di Eli nascondano qualcosa (paranoia, teoria del complotto, corridoi alla Shining, investigazione del paranormale). Alla fine però c’è un super colpo di scena che ribalta il film nel senso che lo sposta proprio su un binario diverso. Non sarei sincero se non dicessi che questo colpo di scena manda anche un po’ tutto in vacca, ma tutto sommato è divertente. La sceneggiatura stava nella “Black List” del 2015 (ogni anno c’è questa “black list” delle migliori sceneggiature ancora non prodotte, roba che negli anni ci hanno pescato film tipo Argo, Juno, titoli così, molto Sundance). Poi a quanto pare Paramount ha prodotto il film, è uscito questo oggetto francamente un po’ ambiguo che di sicuro non sapevano come promuovere e hanno pensato “sai che c’è, diamolo a Netflix”. E bon, dai, schifo non fa. E soprattutto, per ribadire il trend horror dell’autunno 2019, anche qui #cranisfondati#recensioniflash

THE FOREST OF LOVE (S. Sono, 2019)
Sto invecchiando male. Non è che pretendo di essere lo stesso dei tempi di Love Exposure, non sarebbe realistico, son passati quasi dieci anni. Solo che non sono riuscito a vedere tutto d’un fiato il nuovo film di Sono Sion, The Forest of Love. Centocinquanta minuti di sadismo, psichedelia e ultraviolenza in giapponese con i sottotitoli me li sono dovuti smazzare in tre sere di fila. Lo so, non si guardano così i film. The Forest of Love è un thriller/horror grottesco e sanguinoso, sopra le righe, urlato, punk e metacinematografico come e più di molti altri film di Sono (forse solo un po’ più… ehm… sfilacciato). Inutile cercare di capire gli intrecci delle storie dei vari personaggi, almeno per la prima ora e mezza. Ci sono tre giovinastri che vogliono fare cinema low budget, tre studentesse lesbiche in un torbido triangolo basato su Romeo e Giulietta di Shakespeare, giochi suicidi, relazioni familiari tossiche, un truffatore di professione che diventa la “mente” dietro tutte le efferatezze compiute dagli altri personaggi, uno pseudo colpo di scena finale che tanto non interessa a nessuno, la rivelazione che è “tratto da una storia vera” (non so se crederci), e soprattutto una delle scene più splatter viste sullo schermo negli ultimi 40 anni, platealmente concepita per oltraggiare, disgustare e sbeffeggiare lo spettatore (veramente oltre i #cranisfondati). Crudele, beffardo, affascinante… anche un po’ noioso, lo ammetto. Ma non lascia indifferenti. #recensioniflash

DOLEMITE IS MY NAME (C. Brewer, 2019)
Dolemite (pron. Dolemàit). Di film Blaxploitation qualcuno ne ho visto, ma Dolemite non lo conoscevo. Onore e gloria al vecchio Eddie Murphy (e a un Wesley Snipes in formissima) per averlo portato alla mia attenzione. Dolemite Is My Name è il grande ritorno di un attorone che per troppi anni (diciamo dai tempi di Bowfinger) ha avuto parti scialbe in film dimenticabili. Qui si mangia tutti nel biopic di Rudy Ray Moore, il creatore del personaggio di Dolemite – una sorta di Shaft comico che è stato anche indicato come “il padrino del rap”. Il film ha qualcosa in comune con The Disaster Artist nel ripercorrere la produzione di un film amatoriale realizzato con pochi soldi e materiale di fortuna, magari non è da sganasciarsi dalle risate (ed è sicuramente un film che doppiato farà cagare e che in lingua originale senza sottotitoli è estremamente difficile da capire), ma è un’ottimo spaccato di un’epoca e di un genere. Ah, c’è anche Snoop Dogg. #recensioniflash

JOKER (T. Philips, 2019)
Avete già detto tutto voi, cosa altro posso dire del Joker? Nulla.
Ah, no dài: #cranisfondati, anche qua. #recensioniflash

ANIMAZIONE, BESTEMMIE E MAZZATE

Una combo un po’ particolare per la ripresa dopo l’estate della nostra consueta rubrica di visioni. In effetti, durante l’estate ho prevalentemente letto libri e visto meno film, ma alcune chicche me le sono tenute da parte. Si comincia con la più importante uscita di settembre (no, non Tarantino*… il film di Steven Universe) e si prosegue, come promette il titolo, con un paio di anime, un film di bestemmie e uno di mazzate.

STEVEN UNIVERSE THE MOVIE (Rebecca Sugar, 2019)
Partiamo subito con un giudizio secco: Steven Universe The Movie è un film divertente per tutti (fan e profani), coinvolgente, intenso, citazionistico, ben riuscito. Ed è un musical. Ma non un musical tipo che ha cinque o sei canzoni. Il film dura 82 minuti e per 69 minuti cantano. E se siete come me, e tra i vostri generi cinematografici preferiti ci sono il musical e l’animazione, il film di Steven Universe è una manna dal cielo. Cercherò di non fare spoiler sulla trama, che vede in sostanza l’azione spostarsi due anni dopo la conclusione della quinta stagione (Change your mind, lo speciale di 45 minuti che è uscito lo scorso gennaio). Steven adesso ha 16 anni, i Diamanti vorrebbero tenerlo con loro facendogli ereditare il trono che fu di Diamante Rosa, ma lui dice “Bella zie, ho 16 anni, voglio passarmela bene sulla terra, cazzeggiare con gli amici e magari finalmente mettermi con Connie”. Nel frattempo a Beach City le gemme guarite in Change Your Mind stanno costruendo un nuovo quartiere “Little Homeworld” e tutto sembra andare bene fino all’arrivo di un nuovo misterioso cattivo. Nell’antagonista principale del film sta il cuore di tutta l’operazione. Spinel (il nome della gemma avversaria) ha una storia tragica e potente che viene svelata a metà film e non può lasciare indifferenti gli altri personaggi e gli spettatori. Con un’espediente narrativo simpatico, la prima metà del film è anche una buona occasione per ripercorrere (a suon di canzoni) l’evoluzione di tutti i personaggi principali nel corso degli ultimi sei anni. Ma al di là della storia, quello che veramente colpisce è la volontà di Rebecca Sugar di far funzionare il film anche su un piano metacinematografico, di omaggio continuo all’animazione degli anni ’20, ’30 e ’40, con una sequenza di titoli di testa che richiama platealmente i primi Classici Disney ma anche (a livello di musica e illustrazioni geometriche) la visione di Busby Berkeley. La sola presenza dei Diamanti (doppiati da Patti LuPone, Christine Ebersone e Lisa Hannigan) garantisce dei perfetti numeri da età dell’oro del musical hollywoodiano. Spinel stessa è un personaggio animato diversamente dagli altri, in una esplicita citazione dei primi corti di Disney o di Fleischer (il cosiddetto stile di animazione a “tubo di gomma” che è alla base anche del videogame Cuphead). A proposito delle musiche (cui stavolta hanno collaborato Aimee Mann, Chance the Rapper e altri), siamo nel solco di una serie che si è sempre distinta per numeri musicali fuori dalla norma ma che stavolta ha una marcia in più: si fanno ricordare in particolare Independent Together, interpretata tra gli altri da un nuovo personaggio che è la “sorpresa nella sorpresa” del film, Disobedient, il nuovo pezzo pop punk di Sadie Killer & The Suspects, Drift Away, il pezzo strappacuore affidato a Spinel (e scritto da Aimee Mann) e il singolo in giro da un po’ True Kinda Love, la nuova “canzone da battaglia” di Garnet (voce come sempre di Estelle). Alla fine tutto si risolve in una difficile storia di accettazione di sé, di cambiamento e di amicizia – come sempre in Steven Universe – e in un bizzarro ma appropriato epilogo su una scalinata stile Broadway tutti vestiti da Wanda Osiris.
Tanto per ribadire un po’ di queerness.
PS: ci si può solo lamentare del fatto che Lars ha solo una battuta e non canta mai. E non bacia Sadie.
#recensioniflash #stevenuniverse

MODEST HEROES (Studio Ponoc, 2019)
Su Netflix è uscito Modest Heroes, una raccolta di tre corti animati dello Studio Ponoc. E niente, guardatelo subito, chevvelodicoaffà, è assolutamente meraviglioso. Primo episodio: piccolo popolo del fiume alle prese con le correnti e le carpe malvagie. Secondo episodio: la difficile vita di un bimbo con le intolleranze alimentari a Tokyo. Terzo episodio: un tizio invisibile e senza peso cerca di vivere un’esistenza normale. Ribadisco. Sono tre corti eccezionali ognuno a suo modo. 53 minuti ben spesi. #recensioniflash #netflix #anime

MIRAI (Mamoru Hosoda, 2018)
Mamoru Hosoda, già noto per La ragazza che saltava nel tempo, The Boy and the Beast e Wolf Children, ha sfiorato l’Oscar con Mirai no Mirai, il suo ultimo film che rivaleggiava con Spider-Man come miglior film d’animazione del 2019. Credo sia stata una battaglia onorevolissima. Mirai (in italiano il titolo è solo questo, che è poi il nome della sorella del protagonista e vuol dire “futuro”) è uno dei pochi anime realizzato fuori dallo Studio Ghibli che catturi realmente l’essenza dell’infanzia e dell’immaginazione prescolare. Il piccolo Kun vive tranquillo con mamma papà e un cane quando arriva la sorellina Mirai a rompere gli equilibri. Kun passa attraverso diverse fasi di stress, ma le risolve sempre in un misterioso mondo fantastico che si apre nel giardino di casa sua, in cui incontra di volta in volta la sorella in versione adolescente, il suo bisnonno dal passato, lo spirito parlante del suo cane e molti altri personaggi più o meno strani. Come molti film giapponesi che sto vedendo ultimamente, Mirai è un inno alla famiglia e alle relazioni familiari, la storia familiare, le radici e il futuro. Un film per bambini alla scoperta di sé, ma anche un film che – almeno per la mia famiglia – rappresenta uno specchio fedele e realistico delle dinamiche quotidiane. #recensioniflash

LA RAGAZZA DI VIA MILLELIRE (Gianni Serra, 1980)
Ispirato dal fatto che oggi in una bancarella di libri usati ho intercettato la sceneggiatura originale edita nella mitica collana “Il pane e le rose” di Savelli, mi sono rivisto La ragazza di via Millelire, uno di quei cult cinematografici del sottobosco torinese equiparabile solo al successivo (di pochi anni) I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno a Berlino. Ma se il film di Badolisani era la celebrazione della new wave, qui siamo ancora in pieno punk. Gianni Serra gira il film nel 1979. Al cinema poi si è visto pochissimo (io stesso lo vidi nei primi ’90 a qualche proiezione con dibbbbbattito). All’epoca io ero piccolo e vivevo in periferia nord – il film invece è girato tra via Artom, piazza Bengasi, Nichelino e Ivrea – ma posso certificare che la meglio gioventù era esattamente così. Tra un minchia, un dioffà, un picio, e mille espressioni gergali tipiche della Torino anni ’80 come “cagabicchieri”, la “shit”, un uso altamente creativo dei condizionali e dei congiuntivi, invocazioni a tua madre, tua sorella quella troia, ti alzo le mani in faccia, mettiti le mani in culo e via dicendo. Rivista oggi, la storia malatissima di Betty che a 13 anni inizia a prostituirsi tra un ingresso e un’uscita da diversi centri di accoglienza, totalmente ignorata dalla sua famiglia “terrona”, violentata dagli amici del “fidanzato” e sempre alla ricerca del prossimo buco, ha la stessa forza. Un ritmo e un montaggio che mancano a molti film italiani del periodo. La curiosità di personaggi che si perdono nelle nebbie del tempo (i tamarri che fanno le penne in moto, per dire). Credo sia anche il film italiano con il record assoluto di bestemmie pronunciate. Si capisce perché il comitato di quartiere di via Artom avesse raccolto firme per impedire qualsiasi proiezione del film. Oggi, questa gemma nascosta che anticipa sia Amore Tossico, sia Cristiana F., sia Mery per sempre – i primi riferimenti che mi vengono in mente a paragone, la trovate tutta su YouTube (link nel primo commento), completa anche di introduzione vintage di Tullio Kezich. Al termine della visione ho pensato subito ad Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli, e poi a Minchia Sabbry, il personaggio d’esordio di Luciana Littizzetto, che esattamente vent’anni dopo, virando al comico, riprendeva quel linguaggio e quegli atteggiamenti. Le radici erano tutte in via Millelire. #recensioniflash

JOHN WICK 3: PARABELLUM (Chad Stahelski, 2019)
Allora, stanotte ho visto John Wick 3: (Sivispacem) Parabellum e devo dirvi che siamo di nuovo di fronte a quei film che sono una bomba e una cagata pazzesca nello stesso tempo. Come è possibile? Ma certo che è possibile: è un film del cazzo™️! Intanto piove sempre, per dare possibilità all’immenso Keanu (che ha studiato l’arte delle mazzate come non mai anche più degli altri due film) di girare sempre con quei bei capelli lunghi appiccicati alle guance scavate e sanguinolente. Poi ci sono tutti i colori notturni del mondo, in un’estetica che da Blade Runner arriva a Nicolas Winding Refn e ritorno, due volte. E poi niente, ci sono le mazzate, tantissime, le pistolettate, un bodycount esagerato, i pastori tedeschi che azzannano gli scroti, i coltelli nei bulbi oculari, le location improbabili (la New York Public Library, dove John nostro uccide un tizio CON UN LIBRO), Anjelica Huston tatuata, Halle Berry tatuata, ed è tutto un caleidoscopio di mazzate perché tutti vogliono ammazzare John Wick che ha tipo 14 milioni di taglia sulla testa. Nessuno sviluppo drammatico, patetici tentativi di spiegare una sorta di potentissima loggia del crimine di cui alla fine non si capisce un cazzo, dialoghi vicini allo zero assoluto ma UNA VALANGA DI CALCINCULO.
Ne consegue che John Wick 3: Parabellum (che dura circa 132 minuti) è il nuovo oggetto cinematografico di culto che non potrete fare a meno di disprezzare (e, di nascosto, di amare). #recensioniflash

*Tarantino lo vedo domani e si meriterà un post a sé, come minimo.