VIOLENZA GRAFICA E PARTI IN PRIMO PIANO

Nel giro di pochi giorni mi è capitato di vedere due film che mi ero perso nei mesi scorsi. Film che andavano sicuramente visti sul grande schermo ma tant’è… Mi accontento di 26”. Soprattutto, film che non avrei mai creduto potessero piacermi: sto diventando così altro da me stesso da non conoscermi nemmeno più? Prendiamo Apocalypto. Ci va veramente una fortissima sospensione dell’incredulità per essere disposti a vedere un film così. Poi c’è tutto il contorno esasperante della violenza, della censura e relativo immondo battage pubblicitario. In più, l’irritazione per gli exploit horror cristologici di un paio di anni fa. Però il film azteco incuriosisce, e alla fine ti prende. Perché Gibson è riuscito a fare del vero cinema, pura essenza visiva, pura azione. Apocalypto è un film che si potrebbe descrivere con un grafico: la storyline può essere disegnata su un pezzo di carta. Arrivare al grado zero della narrazione non è facile, ma spesso paga, e Gibson ci è riuscito. Mi ricorda quei film di avventura potenti che si facevano una volta e ora non si fanno più (action e fantasy pagano di più). Mi ricorda John Milius: ecco, l’ho detto. E poi c’è Children of Men. Quel folletto geniale di Cuaròn… Prima confeziona il miglior pottermovie a tutt’oggi, e poi se ne esce con questo progetto che sulla carta aveva tutti i numeri per risultare banale e tedioso (antieroe in un futuro distopico dove tutti sono sterili deve salvare l’unica donna incinta da complotti governativi ed eversivi). Anche qui, però, la forza di Cuaròn sta nel rendere il tutto puro cinema, con piani sequenza complessi e lunghi, orchestrati in modo da inchiodare gli occhi dello spettatore allo schermo. Un film sul futuro non futuribile ma fin troppo attuale (sembra un reportage di guerra più che un film di fantascienza). Ottimi attori ed effetti speciali grandiosi proprio perché invisibili (in sintesi qui hanno proprio inventato un nuovo tipo di videocamera). Caso vuole che entrambi i film contengano scene di parto molto crude ed esplicite, ma anche al limite dell’assurdo e del credibile: ne consiglio la visione alle lettrici neomamme, puerpere e gestanti (lo so che ci siete e siete tante)… Intendiamoci, entrambi i film sono parecchio violenti anche se a mio avviso non gratuiti né compiaciuti. Però sono un pugno nello stomaco. D’altra parte, citando Rob Zombie, la violenza nei media non va censurata o edulcorata, ma resa il più possibile esplicita ed efferata, per sottolineare la sua natura disgustosa. Voi che ne pensate?

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LITTLE MISS SUNSHINE, PICCOLE ILLUMINAZIONI

Ci sono quei periodi in cui veramente non ce la fai più. Periodi di sfiga in cui te ne succedono di tutti i colori: anche piccole cose, ma estremamente fastidiose. Sono i periodi in cui magicamente anche i problemi sul lavoro si moltiplicano, le scadenze puntano tutte su un determinato giorno e per di più sei costretto a passare le giornate in interminabili ed inutili riunioni. La congiunzione astrale fa sì che anche la genitrice sia preda di un tornado di ossessioni, disperazioni, depressioni e sensi di colpa di ogni razza e genere. In questi casi cosa fai? Non riesci nemmeno ad alzare la testa, non puoi. L’unica cosa da fare è sorridere e pensare che la vita è così, un tornado che ti sbatacchia da una parte e dall’altra senza alcuna speranza, ma tu la ami perché è vita, e perché ogni tanto il tornado ti porta anche un fiore. Questo è il senso di Little Miss Sunshine, il film che ho appena visto per aiutarmi a sorridere alla vita. Incuriosito anche dai due Oscar, che però (consentitemi) sono i classici Oscar lavacoscienza del tipo “dai, diamo il premio all’outsider che nessuno si aspetta”, un po’ come un premio della critica a Silvestri. Comunque sia, tipica commedia acida e geniale un po’ stile Me, You and Everyone We Know (meno acida) o Sideways (più acida) o Election (più o meno acida uguale). Con una famiglia messa quasi peggio della mia quanto a disfunzionalità: nonno eroinomane e satiro, papà fastidiosamente e fintamente all-american, mamma disperatamente white trash, zio gay studioso di Proust con tendenze suicide, figlio nietszchiano e muto per scelta e figlioletta ancora non (troppo) contaminata dalla follia e dalla vita. Nella struttura del road movie tutti soffrono e tutti gioiscono, qualcuno muore, qualcuno ritrova sé stesso e la bambina riesce a partecipare con un numero (veramente a sorpresa, vale tutto il film) all’orribile concorso “Little Miss Sunshine” e a infilare una scheggia di follia nel cuore marcio della società dello spettacolo. Penso che lo rivedrò anche domani, per evitare Sanremo. Tanto c’è Suz che lo guarda, e mi bastano i suoi reportage… 😛

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FILM EPOCALI, UNO PER DECENNIO

Nei giorni scorsi ho avuto modo di (ri)vedere tre film epocali. Intendiamoci, niente di trascendentale. Si tratta però di tre film che rappresentano con estrema precisione me stesso, o forse la mia generazione (anche se dubito che altri miei coetanei la penserebbero così). Il primo è Gli anni in tasca di Truffaut. Rappresenta la mia infanzia: lo vidi per la prima volta nel 1979, tre anni dopo la sua uscita, in una proiezione scolastica temo epurata di alcune scene (dubito che ci fosse la scena in cui si descrivevano le masturbazioni sotto il banco in classe, eravamo già abbastanza iperattivi senza bisogno di ispirazioni da parte dei film). Rivisto oggi, con quei pantaloni a zampa e le magliette attillate, le visite mediche tutti in fila con gli slippini e le colonie da poco "miste", l’ossessione di guardare le tette e i culi delle giovani mamme dei compagni, le bravate e le giornate spese in strada a raccattare monete perdute e tesori nascosti, le giostre con gli aeroplanini e le macchine d’epoca, mi fa talmente tanta tenerezza da farmi quasi star male. Ovviamente è un film che ho visto diverse volte negli anni, più che altro per motivi di studio. Oggi lo rivedo con l’occhio dello spettatore normale, cogliendo gli echi del ’77 nello splendido discorso finale del maestro. E penso che Truffaut aveva capito tutto, che vorrei che fosse ancora tra noi e che io sono terribilmente e irrimediabilmente invecchiato. Il secondo film è The Breakfast Club di John Hughes – il re Mida dei teen movie. Rappresenta la mia adolescenza. Basta dire che il pezzo clou della colonna sonora del film è Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds. Che sarà pure un pezzo tamarro, ma purtroppo per me e per voi che mi leggete fece da colonna sonora al mio primo vero bacio e al mio primo vero amore totalizzante e larger than life (lei adesso fa la traduttrice dallo spagnolo per qualche comitato zapatista… la meraviglia di Internet sta anche nello scovare le ex). Da noi uscì se non erro nell’85, un anno per me fondamentale: l’ultimo a Torino al ginnasio Gioberti, prima di partire per una trasferta di tre anni di liceo a Ivrea. Nel film cinque "tipi" anni ’80 sono rinchiusi per punizione in palestra a fare un tema dal titolo "Chi sono io?". Kammerspiel dalla sceneggiatura per me folgorante all’epoca (e comunque la reputo tuttora non banale), The Breakfast Club mi è rimasto impresso dentro più di La Boum e lì è rimasto, assopito, fino a questa nuova visione più di vent’anni dopo. Cortocircuito. Groppo in gola. Chapeau a John Hughes. Il terzo è Giovani, carini e disoccupati – un titolo di merda per tradurre il ben più significativo Reality Bites di un giovane Ben Stiller. Rappresenta la mia giovinezza, i miei anni ’90, il cazzeggio all’università, le canne sempre e comunque anche al posto del pranzo e della cena, lo stare svegli nel monolocale gelido a parlare bere e fumare fino alle 6 del mattino, vagare per la città, fare discorsi assurdi e non sentirsi parte di nulla (nemmeno quando ci hanno catalogato come Generazione X). Non sapendo ancora che più avanti sarei stato catalogato come Generazione 1000 Euro. Poi la laurea, e dietro l’angolo quattro stupendi anni di disoccupazione, sottooccupazione, lavori un giorno sì e due no, ma tutto sommato responsabilità zero. Con finale comunque amaro, perché la realtà morde, e fa male. A questo punto mi domando se esista (forse lo scoprirò col senno di poi) un film che mi rappresenti come sono adesso. Trentasei anni alla deriva, con qualche punto fermo che ogni tanto rischio di non vedere, uno che guarda la sua vita più spesso dall’esterno che non dall’interno (almeno più spesso di quanto vorrebbe), convinto di meritare qualcosa dalla vita quando in realtà non fa nulla per meritarlo, spesso scazzato, sempre meno incline ad approfondire, appassionarsi, discutere. In una parola sempre più vecchio. Se qualcuno ha il fim per me, me lo segnali. Io vado a scazzarmi da un’altra parte.

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