FERMI QUI, A SPASSO NEL TEMPO

Here: “qui”, è il titolo programmatico del film di Robert Zemeckis tratto dal graphic novel di Richard McGuire. Tutto si svolge nello stesso luogo, dalla preistoria ai giorni nostri, e il “trick” tecnico – perché c’è sempre un trick tecnico se no non sarebbe Zemeckis – è quello di riprendere tutto il film (tutto tranne l’ultimissima inquadratura) con una camera fissa, posizionata in un punto e mai mossa. Una camera che punta sul salotto di una casa dai primi del ‘900 ad oggi, e quando la casa non c’era, c’è lo stesso pezzettino di strada, di foresta o di magma primordiale.

Il film comincia con i dinosauri, l’asteroide, l’era glaciale. E tu ti chiedi se stai guardando un film di Terence Malick sotto steroidi. Poi c’è la natura selvaggia. Poi – io ve li dico secondo la scansione temporale, ma il montaggio è frammentato e molto sperimentale, anche all’interno dell’inquadratura stessa, con dei riquadri che vogliono richiamare le vignette di McGuire – ci sono i nativi americani, ieratici e in armonia con la suddetta natura selvaggia. Poi c’è Benjamin Franklin con i suoi eredi e la guerra di indipendenza. Poi viene costruita la casa. Poi ci va ad abitare ai primi del ‘900 una famiglia in cui lui è un appassionato aviatore e lei Michelle Dockery di Downton Abbey. Poi negli anni ’40 ci abita una bizzarra coppia lui inventore, lei pin-up. Poi dagli anni ’50 agli anni ’10 del nostro secolo ci abita la famiglia Young, centro focale della narrazione (ci torniamo). Infine, ai tempi del Covid, ci abita una famiglia di colore.

Here è un mélo sperimentale che vuole mescolare i piani temporali ma gli avrebbe giovato moltissimo discostarsi dalla visione di McGuire (perfetta per il fumetto ma qui mmmmmh) ed eliminare tutti gli altri piani temporali concentrandosi solo sulla famiglia Young. Coppia anni ’40 a parte, infatti, gli altri personaggi sono inutili e soprattutto non creano alcun interesse nello spettatore.

La famiglia Young, invece, con il patriarca Al (Paul Bettany), la moglie e (presto) i figli, procede lungo il fiume della vita con tutte le gioie e le sfighe della gente comune. Il figlio maggiore Richard (Tom Hanks) che vorrebbe fare il pittore, si innamora e mette incinta Margaret (Robin Wright): i due ragazzi, tra contrasti e momenti di tenerezza, restano a vivere nella stessa casa, gli anni passano e loro invecchiano.

Detto ciò (la storia è veramente banale, ma colpisce) quello che è seriamente imbarazzante di Here è il ringiovanimento digitale. Lo avevamo già visto in The Irishman di Scorsese, ma qui è un continuo, il Tom Hanks e la Robin Wright “giovani” sono costantemente in scena e per di più quasi sempre in primo piano… l’effetto è vagamente intollerabile e distrae molto dalla storia. Ma è il prezzo da pagare per essere testimoni di un’altra scorribanda nella tecnologia del cinema accompagnati da Zemeckis.

L’inquadratura finale – che in un certo senso riprende e fa da specchio all’inquadratura della piuma all’inizio di Forrest Gump (stesso regista e attori) – vi aprirà le cataratte del piangiometro e alla fine vi renderete conto che anche se avrete detto “ma che cazzo” più di una volta durante la visione, Here vale il prezzo del biglietto.

PS: nel trailer c’è una delle mie canzoni preferite di ogni tempo (I’ve seen all good people dal primo album degli Yes), ma nel film non mi è parso che ci fosse. Peccato.

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