Lo aspettavamo da anni, era uno dei più sfigati film del Covid, ora è arrivato. Salem’s Lot, il nuovo adattamento di Gary Dauberman (della factory di James Wan, già sceneggiatore di It 1 e 2) dal secondo romanzo di Stephen King è… diciamo che non fa cagare come si temeva. Non è bellissimo ma si fa guardare.
Difficile fare male con un materiale di partenza così figo (e con una miniserie televisiva di Tobe fucking Hooper alle spalle). Dauberman decide per l’approccio filologico e se la gioca sulla nostalgia per gli anni ’70, che è abbastanza inedita: la nostalgia di solito è riservata agli ’80 e ai ’90 in quanto unici decenni “felici” prima di piombare nel mondo di merda in cui viviamo da 24 anni.
Quindi: Barlow è modellato sull’omonimo vampiro di Tobe Hooper, l’ossatura della storia è quella del romanzo (salvo un climax finale che il regista decide di ambientare… in un Drive In!) però si ha comunque la sensazione che qualcuno abbia detto a Dauberman “taglia, figliolo, taglia” e che quindi alcuni snodi narrativi siano finiti sul pavimento della sala montaggio (vabbè è un modo di dire superato ma ci capiamo).
Come conseguenza tutto sembra un po’ buttato lì: la Marsten House (dove vive il vampiro Barlow) la cui backstory è centrale nel romanzo qui viene risolta in due minuti, tutti i personaggi sono un po’ tirati via ma… ci sono soluzioni visive interessanti e – come nel 1979 – la visione del piccolo Ralphie Glick vampirizzato che fa tap tap alla finestra dell’amico Mark Petrie fa rizzare i capelli sulla nuca. Come del resto un po’ tutte le scene che si svolgono in “quella” casa, o al cimitero, o all’obitorio.
Insomma, bene ma non benissimo. Ma lo salviamo per affetto.