Da torinese, mi sento di dire che ci sono almeno tre momenti di vera, grande festa cittadina. Il primo – il più “datato” – è il Torino Film Festival, che dal 1982 per chi ama il cinema come me è il vero momento aggregante e festivo della città. Nel 1982 (allora era noto come Festival Cinema Giovani) ci vidi in anteprima The Wall di Alan Parker e di lì a poco ho tentato di rasarmi le sopracciglia come Bob Geldof con grande preoccupazione dei miei e grande scherno dei miei compagni delle medie.
Il secondo momento di grande festa in città è il Torino Pride, che dal 2006 in avanti – in maniera sacrosanta – è diventato il momento di massima aggregazione tra cittadini torinesi all’insegna della tolleranza, dell’uguaglianza, del rispetto reciproco e dell’amore universale. Inutile ribadire ai miei 25 lettori che non è solo una festa gay ma anzi, è una festa di tutti e per tutti che da 13 anni rende Torino un posto più respirabile.
Ma dal 2016 è arrivato in città un nuovo momento di festa: Open House Torino è di nuovo una questione di inclusione. Open House ci fa sentire tutti come se uscissimo su un ideale ballatoio cittadino e ci infilassimo ognuno nelle case degli altri. Con grandissima sabaudaji, ovviamente. Non sia mai che noi torinesi facciamo i maleducati con i vicini di casa. Eppure, è innegabile che nel torinese esiste quella curiosità un po’ morbosa di vedere “le case degli altri”, e Open House la soddisfa pienamente.
Per chi ama l’architettura e la storia cittadina, non c’è niente come il weekend di Open House. Totalmente gestito sul campo da meravigliosi volontari in maglietta blu (ma l’organizzazione a monte, in tre anni, è diventata sempre più solida), Open House apre le porte di palazzi, chiese, case private, spazi di lavoro, ex fabbriche ristrutturate e molte altre realtà che normalmente sono chiuse al pubblico, blindate per abbandono o semplicemente non valorizzate per mancanza di personale. Non è come visitare un museo, è un’esperienza molto più intima e totalizzante.
Ci sono 150 location da visitare (cambiano un pochino ogni anno) e il tutto diventa come un album di figurine in cui l’appassionato torinese, torinista e torinologo comincia a dire “celo”, “manca” e ad immaginarsi i percorsi di scoperta o riscoperta dei luoghi della sua città. Io, dal canto mio, mi riduco a scalmanarmi nei ritagli di tempo. Ho goduto appieno del Torino Film Festival per almeno 18 anni, prima che la vita reclamasse il suo tributo di sangue e diventasse troppo oneroso prendere continui permessi sul lavoro per infilarsi in sala 24/7. Ho goduto del Pride per almeno 6 anni prima che la mia nuova condizione di papà rendesse a volte (ma non sempre) difficile partecipare.
Open House è iniziato in una fase della mia vita in cui sono in continuo sclero, perciò non riesco mai a vedere tutto quello che vorrei. Ad esempio, in 3 anni di frequentazione, non sono ancora riuscito a vedere alcuni edifici per me totemici come Casa Hollywood, Palazzo Lancia, Casa Y, Palazzo Novecento, la Nuvola Lavazza e il Lanificio di Torino, o a rivederne altri che per me hanno un valore affettivo forte come Palazzo del Lavoro (che quest’anno mi ha fregato, all’ultimo hanno chiuso i battenti per motivi non meglio precisati), i Magazzini dei Murazzi o il quartiere Falchera.
Il problema è che io mi faccio gli itinerari, metto le crocette nei posti già visti e i pallini in quelli che vorrei vedere e poi devo intersecare tutto con la spesa da fare (cerca un posto vicino a un Lidl è la soluzione), la necessità di fare commissioni in centro (ottimizza con gli edifici in zona, ormai quasi tutti battuti), il paradigma dell’edificio vicino a casa che quindi con una scappata a piedi ce la fai alla veloce (a patto che non ci siano code chilometriche come tradizionalmente accade al 25 Verde di Via Chiabrera).
Ma va bene così. È una specie di caccia al tesoro. Un album di figurine che ci metterò una decina d’anni a completare. Lunga vita a #openhousetorino.