Circa un mese fa, Matteo mi ha chiesto questa presentazione per il suo fumetto in uscita a Lucca Comics. Se comprate Railroads (Manfont, 14 € ben spesi in fumetteria) la leggete lì. Un po’ tagliata, solo perché io non sarei io se non fossi odiosamente verboso. Con il permesso dell’Artista lascio qui di seguito ai posteri la versione integrale della prefazione. In attesa che esca (tra pochi mesi, speriamo) il prossimo volume. La donnina qui a fianco però ce l’ho solo io, nella mia personalissima edizione griffata a mano dall’Autore… 😉
C’è questa cosa, che lo steampunk è considerato un po’ difficile da digerire. Non so, probabilmente sono io, ma l’abbinamento di fantascienza e ambientazione vittoriana o pseudo-tale quando non da “conquista del west” mi è sempre sembrato ostico. Certo, un gioco letterario molto stuzzicante sulla carta, ma spesso poco appassionante. Per questo, quando Matteo mi ha chiesto di introdurre al lettore il suo “Railroads”, ho sollevato più di un sopracciglio (due: ne ho due, in effetti è solo un modo di dire). Dirò una cosa impopolare che mi alienerà subito le simpatie dei lettori: i capisaldi storici dello steampunk come “La macchina della realtà” di Gibson e Sterling o “La lega degli straordinari gentlemen” di Moore e O’Neill mi hanno profondamente annoiato. Ci ho provato, parecchie volte. Ma non sono riuscito a finirli. Il -punk identificativo della cultura underground non è bastato a farmi andar giù quelle storie. Allo steam– ho sempre preferito il cyber-, o lo splatter-.
Naturalmente, ci sono delle eccezioni. Quando il punto non è solo “cosa succederebbe se la tecnologia a vapore si sviluppasse in una linea temporale alternativa in modo talmente avanzato da permettere azioni impossibili nell’epoca storica che abbiamo studiato sui libri”. Quando non tutto è incentrato su quell’idea di retrofuturo che ovviamente andava benissimo quando a scrivere era Jules Verne ma che alla lunga, se chi scrive è nato negli ultimi 50 anni, risulta stucchevole. Quando il concetto di steampunk è un condimento, insomma, e non il piatto principale.
Prendiamo Miyazaki. A chi non piace Miyazaki? Tutti amano lo Studio Ghibli. Io ne vado pazzo. Eppure proprio Miyazaki, in “Laputa il castello nel cielo” o in “Il castello errante di Howl” ingloba in gran parte un’estetica steampunk che peraltro a metà degli anni ’80 era ancora lontana dalla diffusione di massa dei decenni successivi. Ma Miyazaki, appunto, usa questo tipo di estetica per “colorare” le sue storie personali di amicizia, ecologismo, antimilitarismo. Oppure un altro caso, completamente diverso, che rappresenta per me un esempio di graphic novel steampunk non noiosa [ahem]: “Gotham by Gaslight” di Augustyn e Mignola. Batman, i supereroi, la DC Comics, tutto molto risaputo, ma… ambientato in un 1889 alternativo. Un’idea bizzarra e probabilmente un po’ gratuita, ma ehi… Mignola è Mignola – probabilmente il più azzeccato illustratore steampunk che sia in circolazione oggi. E quel fumetto è divertente.
Ecco, arrivo al punto. Se si vuole divertire il lettore non basta il gioco cervellotico del “what if” e l’accurata descrizione di un 19° secolo alternativo. Serve un pizzico di follia in più. Che sia l’ironia sparsa a piene mani negli “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie (la mia sensibilità personale mi porta a preferire mille volte lo “Sherlock” postmoderno di Steven Moffat, ma è innegabile che Robert Downey Jr. abbia fatto un gran lavoro sul personaggio); che sia il fantasy filosofico e sognante di Philip Pullman; che siano le baracconate di “Wild Wild West“, “Van Helsing” o (dio ce ne scampi) “Sky Captain and the World of Tomorrow“*, c’è sempre qualcosa in più che rende appetibile il prodotto.
E in Italia? nel 2009 Bonelli, con la miniserie “Greystorm” di Serra e Cozzi, mi ha fatto pensare a una via nazionale allo steampunk (principalmente per le copertine di Cozzi, che quanto a mecha design ottocentesco non hanno nulla da invidiare ai disegni di Bryan Talbot o François Schuiten, per citare due “divinità steampunk” del mondo dei comics). Poi però lo stesso Serra ha precisato che non si trattava tanto di steampunk quando di grande avventura bonelliana calata in un realistico contesto ottocentesco. Ergo, noi non abbiamo una vera “tradizione steampunk”, ad eccezione delle ucronìe del versatile Luca Enoch (sempre su Bonelli con “Lilith“) o di qualche sporadica incursione Disney in quel tipo di immaginario. Fino ad ora.
Matteo Aversano, io lo conoscevo bene. Ci siamo incontrati in quel periodo di grande fermento della rete che è oggi noto come “la nascita del web 2.0“. Entrambi avevamo un blog (io ce l’ho ancora, lui non so**). Il suo si chiamava “One toke over the line“. Se pensate che è il titolo di una canzone di un oscuro duo di folksinger americani che viene canticchiata all’inizio di “Paura e disgusto a Las Vegas” di Hunter S. Thompson, capirete subito il grado altissimo di geekiness*** di Matteo. Si faceva chiamare Etere, stava in coppia con Mescaline (non si è mai capito se stavano insieme o se era tutta una montatura) e faceva gonzo journalism illustrando con vignette espressioniste le sue avventure in un’Italia alla deriva.
Poi, come capita sempre in queste curiose amicizie web, ci siamo sentiti “a corrente alternata” per diversi anni. Matteo ha illustrato un mio racconto a puntate (mi piaceva fare questo accenno narcisistico perché altrimenti si parla troppo di Matteo e pochissimo di me), si è trasferito da Genova a Torino, ha fatto la Scuola Internazionale di Comics, ha disegnato per Vittorio Pavesio, ha fatto illustrazioni, copertine di dischi, videoclip animati e videogames (il tutto mentre si manteneva lavorando per Apple, perché come è noto a tutti, “con i disegnini non si mangia“). Nel 2011 ha creato con altri fumettari ManFont. E quello è stato un po’ lo spartiacque.
Quando Matteo mi ha spiegato ManFont ho dovuto abbandonare la mia bellissima ma improbabile idea che si trattasse di un supereroe metà uomo e metà carattere tipografico: ManFont è un collettivo di autori, editor, disegnatori, coloristi, inchiostratori, etc. che applica il metodo della factory artistica per autoprodurre fumetti e graphic novel. Come “Railroads”. Non c’è bisogno che sottolinei quanto può costare, in termini di impegno, sonno, lavoro e ansie un’autoproduzione di questo tipo. “Railroads” è un risultato che per me va al di là delle aspettative. Anche perché – e qui chiudo il cerchio – è steampunk senza essere noioso.
Aversano, da narratore abituato a spiazzare, combina Verne e Salgari: abbina l’estetica steampunk alle storie di pirati care al romanziere torinese al cui fiume di avventure evidentemente da piccolo si è abbeverato (oppure ha semplicemente un’ossessione per Johnny Depp e i Pirati dei Caraibi). La combinazione, che sulla carta era un grosso WTF****, si rivela vincente: non c’è il tempo di familiarizzare coi personaggi, si è subito proiettati nell’azione. Azione su rotaie, con treni a vapore comandati da pirati senza scrupoli, con cannonate, corse, abbordaggi, salti da un vagone all’altro e un McGuffin***** totalmente e letteralmente steampunk. Ma ora è inutile descrivervi troppo “Railroads”. Tanto vale girare la pagina e iniziare a leggerlo.
Mi sento di aggiungere solo una cosa.
C’è un aspetto dell’estetica steampunk che mi vede tra i fan più entusiasti. Lo possiamo riassumere nel concetto “tipe dal seno prosperoso che si vestono una via di mezzo tra una prostituta del 1890 e un aviatore tedesco” (lo steampunk ha una florida tradizione di cosplayer impallinati, ci sono persino gli stilisti steampunk, e ho detto tutto). Ecco: negli anni, Matteo si è specializzato in modo esemplare nel disegnare questo tipo di donnine.
Il che è un altro ottimo motivo per leggere “Railroads”.
* Peraltro va notato che c’è un altro sottogenere che meglio identifica questa piccola gemma trash con Angelina Jolie, ed è il cosiddetto dieselpunk. Lo steampunk sta al 1880 come il dieselpunk sta al 1940. Sono dieselpunk anche Rocketeer, il primo Capitan America, e anche un po’ Sucker Punch. Ora lo sapete, ed eventualmente potete tenervene lontani.
** Ce l’ha, ce l’ha. Si chiama “La festa delle medie“, ed è un filino meno folle di quello prima.
*** Per chi ha vissuto su un altro pianeta fino ad oggi, il geek non va confuso con il nerd. Laddove sia il geek che il nerd hanno ben radicata la passione per la tecnologia, i fumetti, la cultura pop, il fantasy, Star Trek, Star Wars, Battlestar Galactica e il Doctor Who, il geek ha mantenuto una buona capacità di interazione sociale. Il nerd no. Se incontrate Matteo di persona, quindi, potreste considerarlo quasi normale.
**** Acronimo inglese molto usato on line dalla popolazione geek che sta per “What The Fuck“, ossia “ma cosa diamine” nell’italico idioma.
***** Termine inventato da Sir Alfred Hitchcock che definisce un oggetto apparentemente insignificante ai fini della storia – attorno al quale ruota tutta l’azione dei personaggi. Curiosamente, molto spesso si tratta di una valigetta, o di un baule…