POV I PRIMI ANNI: UN ESPERIMENTO RIUSCITO?

Facciamo come in quelle recensioni dove si parte dalla fine per poi tornare all’inizio: diciamolo subito, quindi. POV I primi anni, la serie Rai Ragazzi che è iniziata e finita in questo mese di febbraio 2021, è tutto sommato un sì.  Ma devo darvi un minimo di contesto, perché né io, né voi (probabilmente) siamo in target per questa serie TV abbastanza particolare.

POV I primi anni (attenzione a scrivere correttamente tutto il titolo, perché googlando solo POV si potrebbe incorrere in spiacevoli accostamenti a carattere pornografico) è una serie teen che racconta la vita quotidiana di una classe di ragazzi al primo anno del fittizio Liceo Machiavelli di Torino. Fino qui tutto normale. È una serie corale, nel senso che facilmente possiamo contare venti protagonisti le cui storie si intrecciano o procedono parallele (e qui per uno spettatore agé come me scatta subito la voglia di infografica, per capire chi sta con chi, chi vorrebbe stare con chi, chi è parente di chi, un po’ come in Dark o Game of Thrones). L’ambientazione, assolutamente inedita, è quella torinese dell’International Training Centre dell’ILO, sulle rive del Po, dove i giovani protagonisti, i quattro attori adulti (personale scolastico) e la crew sono stati rinchiusi per un mese nell’estate del 2020 a girare come dei forsennati.

La particolarità di POV (d’ora in poi abbrevio, perdonatemi) però sta nell’approccio rivoluzionario alla produzione, alla sceneggiatura, alla regia e al montaggio della serie. Vado a spiegare perché.

Intitolare la serie “POV” fa emergere fin da subito la dichiarazione di intenti comunicativa: la moltiplicazione dei punti di vista. Oltre ad essere una serie corale, POV è una serie dove la narrazione lineare “onnisciente” è frammentata dai punti di vista dei vari protagonisti che si confessano con video selfie su Instagram o riprendendo i compagni di nascosto magari contraddicendo o semplicemente integrando il flusso della narrazione principale. Questa cosa ovviamente non è una peculiarità solo di POV: è una tecnica narrativa consolidata, ma non è così comune trovarla in un prodotto rivolto ai ragazzi. Non è calcata in modo evidente nemmeno in Brugklas, il format originale olandese cui la produzione si è ispirata.

POV prende molto anche dal linguaggio del reality televisivo, fin dalla premessa produttiva: un “gruppo classe” di ragazzi chiusi in un contesto per un mese, senza contatti con l’esterno, a girare la serie. Ma mentre il reality show finge la verità davanti alle telecamere e in realtà ha degli autori, ed è molto “scritto”, in POV il cosiddetto soft scripting (una sceneggiatura light che lascia molto spazio all’improvvisazione degli attori esordienti) è dichiarato fin dall’inizio. Siamo di fronte ad un prodotto di fiction e lo sappiamo, ma risulta “più reale” di un reality. Tra l’altro questo gimmick del gruppo di ragazzi chiuso con la crew nella location unica può anche essere stata una scelta dettata dal Covid: in effetti nei titoli di coda esce sempre la figura di un responsabile Covid, il credit a un service di tamponi e sierologici, un disclaimer sul fatto che i ragazzi non indossano mascherine (e infatti credo che la sfida della seconda stagione starà anche nel declinare le esperienze dei ragazzi con la pandemia, la DAD e tutti i problemi quotidiani di quest’anno).

RAI ha avuto una buona intuizione – e un notevole coraggio – a uscire con POV, il cui confronto immediato è proprio quello con produzioni come Il Collegio (reality Rai), JAMS (un’altra serie Rai Ragazzi molto basata sull’improvvisazione degli adolescenti protagonisti) o SKAM Italia (la serie TimVision/Netflix dai valori produttivi evidentemente più alti ma abbastanza in linea come tematiche). Le differenze però sono interessanti.

SKAM Italia tratta tematiche adolescenziali (che però su SKAM stanno su una fascia di età leggermente più alta), presenta un cast corale (ma più ristretto e focalizzato a ogni stagione su una sola coppia di protagonisti) e usa i linguaggi dei social, l’abbinamento con un canale Instagram etc (l’uso dei social di SKAM però sta più nelle interfacce di Whatsapp, Instagram o Facebook che appaiono a schermo). Rispetto a SKAM, POV è più fluida, meno focalizzata, magari disorienta, ma le storie si dipanano poco a poco. Il reality Il Collegio è – appunto – un reality: le prime puntate di POV puntano vagamente in quella direzione, ma poi emerge chiaramente il carattere di fiction, come dicevo sopra. Inoltre, è chiaro che la tematica social non può entrare in un reality che si basa appunto sull’inserimento di adolescenti di oggi in un contesto scolastico “old skool”. JAMS è la serie più vicina a POV (entrambe di Rai Ragazzi, anche se con due produzioni diverse, Showlab per POV e Stand by Me per JAMS) o meglio: sta a metà tra POV e SKAM. In questo caso il target è la scuola media, i protagonisti sono pochi, come in SKAM, le tematiche trattate sono anche drammatiche (molestie, abusi, bullismo e cyberbullismo), la recitazione è spesso improvvisata ma le redini della narrazione sono saldamente tenute dal regista.

Invece Davide Tosco (il regista di POV, coadiuvato dagli autori Francesco Bigi, Nicola Conversa ed Erica Gallesi) compie questo atto rivoluzionario di lasciare i mezzi di produzione in mano ai ragazzi protagonisti. Tutto in POV concorre alla fruizione veloce, al consumo diretto agli adolescenti, magari direttamente su smartphone (io ad esempio l’ho guardata tutta così, direttamente su RaiPlay, dove correttamente hanno deciso di uscire con 10 episodi a settimana per i binge watchers come me). La durata degli episodi è di 12 minuti – l’ideale per raccontare piccole storie di vita scolastica che accumulandosi fanno conoscere i personaggi: a poco a poco si scoprono le cose, senza affaticare l’attenzione e scaricare troppo la batteria. Il prodotto adolescenziale perfetto: non a caso 12 minuti è la durata tipo, ad esempio, anche delle più note serie animate di Cartoon Network, che il pubblico di POV probabilmente guardava fino a poco tempo prima. Non si può non levarsi il cappello di fronte al montatore (o meglio, spero una squadra di montatori) che ha dovuto elaborare fonti diverse, ciak ripetuti, improvvisati, improvvisi e a volte inspiegabili dettagli di insetti o fogliame (Davide Tosco evidentemente ama molto Lynch e Malick), nonché tutti i video verticali, orizzontali o semplicemente storti forniti dai cellulari dei ragazzi.

POV ha attori esordienti quasi tutti torinesi molto naturali (chi più chi meno, ma si vede molto il miglioramento dagli episodi più vecchi ai più nuovi, sarebbe interessante capire se la serie è stata girata in sequenza). I personaggi di POV rispecchiano molto chiaramente i classici “tipi” che tutti noi abbiamo incontrato al liceo. C’è il bel tenebroso (Benji), il bravo ragazzo tormentato (Manu), entrambi innamorati della classica acqua cheta della classe (Beatrice). Questa ovviamente è solo la linea narrativa principale. Attorno ad essa si sviluppano le altre trame con i contrasti tra gruppi di amiche (Francesca, Letizia, Anna, Selene), improbabili amicizie tra adorabili sfigati (Zack, Giro, Emma) o tra aspiranti influencer social (Katia, Rami). Nel giro di 52 episodi viene usato almeno un paio di volte il topos del “compagno nuovo” (prima Ambra, poi Sick) e naturalmente ci sono i personaggi extra come l’attivista della scuola (Silvio Matteo, accompagnato dalla sua spin doctor Tiana), e altri compagni che si pongono tipicamente nel ruolo di “osservatori” (Leo, Cristina, Pawl) commentando gli eventi a mo’ di coro greco.

Grazie al lavoro degli attori, i temi “importanti” che in POV passano con molta fluidità sono quelli del rapporto con gli altri mediato dai social pervasivi, della ricerca della propria identità (anche di genere, un tema che in RAI Ragazzi non credo sia mai stato trattato), del bullismo, della ludopatia, del body shaming, e di tutte quelle esperienze vecchie e nuove che rendono l’adolescenza un meraviglioso periodo di merda. Suona didascalico? Potete ricredevi subito. Il fatto che POV sia raccontato per più del 50% da riprese traballanti fatte coi cellulari dai ragazzi stessi è garanzia da un lato di sequenze ai limiti dell’imbarazzo (in certi episodi la locura alla Boris regna sovrana), ma dall’altro di un grado di sincerità difficilmente eguagliabile da parte di altri prodotti simili. L’uso dei social come meccanismo narrativo ma anche come tema centrale della trama fa passare anche agli spettatori più giovani un messaggio non banale che forse vale più di molti “corsi di responsabilizzazione” sull’uso di questi strumenti, evidenzia le conseguenze delle azioni a volte sbagliate che si fanno senza l’ipocrisia di pensare che i ragazzi non abbiano in continuazione il cellulare in mano.

Poi, chiaro, non è tutto oro quello che luccica. Verso gli episodi conclusivi, forse proprio a causa di questa “anarchia narrativa” che è la sua cifra stilistica, POV non riesce a tirare bene le fila di tutte le trame che ha messo in campo negli episodi precedenti: si capisce che alcune cose sono un po’ tirate via giusto per concludere e altre – giocabilissime come cliffhanger per una stagione successiva – sono sprecate in un montaggio che non lascia abbastanza tempo per metabolizzare le scelte di campo dei protagonisti.

Non so che dati di audience abbia POV: ovviamente nella mia bolla è una serie assolutamente sconosciuta, ma non ho dubbi che sia abbastanza vista nella fascia 12-15 anni. Basta sbirciare i profili Instagram di autori e attori per capire che una certa base di fan esiste. Gli auguro di aumentarla perché, insomma, POV è una serie teen che si fa guardare anche da un adulto, e questo dovrà pur valere qualcosa.

Una risposta a “POV I PRIMI ANNI: UN ESPERIMENTO RIUSCITO?”

  1. Salve
    A me è piaciuto tantissimo,solo qualche primissimo piano non mi ha entusiasmato molto ma per il resto è ok !

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